Antonio Guiotto
Senza titolo con didascalia

Bassano del Grappa, Museo Civico
ottobre ― dicembre 2019

Un artista mimetico
Daniele Capra




Il progetto di Antonio Guiotto Senza titolo con didascalia mira ad inserire degli elementi di distorsione informativa e spaesamento logico-temporale in uno spazio espositivo museale, un luogo cioè convenzionalmente dedicato a studiare, conservare e valorizzare ciò che è ritenuto significativo della ricerca artistica avvenuta nel passato [1]. Istituzionalmente un museo, tanto più se pubblico, è caratterizzato dal rigore scientifico delle informazioni comunicate e dal rispetto nei confronti del visitatore, motivati dalle sue stesse finalità costitutive. L’artista si propone invece di sovvertire tale prassi, agendo sugli strumenti di narrazione e mediazione del museo, e scardinandone uno degli assunti: l’autorevolezza delle informazioni trasmesse dall’istituzione. Guiotto è interessato a interrogare l’osservatore, a sfidarne la perspicacia e l’ironia, in modo da capovolgere le consuetudini della verticalità del flusso delle informazioni e della passività della comprensione (benché, negli ultimi vent’anni, l’informazione museale si sia sdoppiata, includendo anche il visitatore nelle dinamiche di comunicazione). Nessuno mai infatti, tanto più in un museo dedicato all’arte del passato, immaginerebbe che gli apparati di supporto – didascalie, schede, guide – fossero impiegati non tanto per comunicare dati o informazioni incontrovertibili, quanto invece per raccontare qualcosa che sta intorno all’opera ma che può essere invece un’impressione, una supposizione, una storia verosimile o un racconto surreale. Alla norma rigida e codificata del flusso informativo l’artista contrappone così una narrazione caratterizzata da un approccio personale straNiante, bislacco ma autentico, spronando chi guarda a interrogarsi, a esercitare il dubbio e a porsi inmaniera critica con le informazioni che gli sono trasmesse. E, non ultimo, a eccitare la fantasia generando, a partire dall’opera, storie ulteriori.


Senza titolo con didascalia è costituito da due tipologie di lavori differenti, realizzati specificamente per il contesto della Pinacoteca e dell’ala canoviana del Museo Civico di Bassano. Il primo intervento è relativo ai soli supporti di mediazione museale, mentre il secondo è un’inedita operazione concettuale sulle sculture di Antonio Canova presenti nelle collezioni, che sono accresciute, in maniera del tutto inattesa, con la presenza di nuovi busti in gesso. L’artista sfrutta infatti l’asimmetria informativa tra l’istituzione e l’osservatore che non sia un connoisseur sulle opere presenti nel percorso di visita: anziché dare chiare indicazioni per raggiungere un posto il più comodamente possibile, Guiotto mena il can e il visitatore per l’aia, portandoli poi in altri luoghi a fare esperienze originalmente non previste. Tale modalità diversiva ricorda, in parte, le vicende de La ballata del vecchio marinaio di S.T. Coleridge, in cui il marinaio ferma per strada un gentiluomo che sta andando ad un matrimonio e lo intrattiene con il suo racconto magnetico, impedendogli di andare nel luogo in cui è atteso, ma consentendogli invece di arrivare dove, con la propria immaginazione, mai avrebbe immaginato di giungere. In questo processo di deviazione il museo, coraggiosamente, si presta a fare il fiancheggiatore dell’artista, prendendo dei rischi che dimostrano invece le possibilità creative quando l’istituzione opera intellettualmente «fuori di sé», cioè al di là del suo stretto perimetro d’azione. E se, curiosamente, in letteratura l’espressione «museo fuori di sé» ricorre solo per spiegare le politiche di estensione delle attività istituzionali del museo fisicamente al di fuori dei propri spazi, l’esperienza di questo progetto va invece riferita alle modalità concettuali e ideologiche con cui esso svolge la propria missione e incarna il proprio ruolo.


Le venti nuove e inedite schede di lettura delle opere realizzate da Guiotto sono caratterizzate dall’adozione mimetica delle medesime consuetudini grafiche dei supporti informativi presenti in museo (font, colori, l’impaginazione) e forniscono delle informazioni differenti da quelle abitualmente date o che è ritenuto significativo condividere. Con uno stile spiazzante, funambolico, burlesco, talvolta amichevole e spesso confidenziale, l’artista scrive dei racconti in cui alcuni dati reali – frutto cioè delle analisi e delle deduzioni documentali degli storici dell’arte – sono confusi con elementi di fantasia immaginati dall’autore. In particolare egli sovverte lo stile saggistico-argomentativo e il carattere divulgativo con cui sono redatte le schede esplicative, grazie a una sintassi paratattica ed additiva (i periodi si aggiungono senza sosta a quello precedente) e a scelte lessicali tipiche dello stile del parlato. La conduzione del ragionamento, le digressioni, i continui voli pindarici costruiti su elementi secondari, l’incessante mescolamento delle proprie vicende personali con quelle dei soggetti rappresentati e degli autori delle opere, fanno di queste schede un unicum nella storia dell’esegesi artistica. Sembrano infatti il racconto confidenziale di un dotto e canuto storico dell’arte che non avverte più alcuna distanza tra sé e le opere che ama, e che, in una tarda notte d’inverno dopo una cena luculliana innaffiata da tanti vini, lascia la sua lingua andare senza esercitarne alcun controllo. Il visitatore del museo o il lettore, come colui che ascolta il vecchio storico nella notte in cui ha ceduto a Bacco, si trova così in una condizione di divertito imbarazzo, poiché non è probabilmente in grado di conoscere la precisione o la veridicità delle informazioni ricevute ma, nell’incertezza, non può certo trattenere il sorriso.


Il secondo intervento dell’artista riguarda invece il nucleo di busti in gesso di Antonio Canova, presenti nel museo, che è stato implementato con cinque nuove opere in stile canoviano grazie al sostegno di alcuni mecenati. Tale modalità nasce da una riflessione sull’identità del Museo Civico, le cui collezioni sono accresciute, a partire dall’Ottocento, grazie alle donazioni e allo spirito di partecipazione dei cittadini che hanno fatto dell’istituzione un luogo in cui vedersi e riconoscersi. Guiotto ha realizzato cinque nuovi gessi utilizzando lo stile neoclassico dello scultore di Possagno, che sono esposti insieme agli originali, con analoghe modalità allestitive e, ovviamente, medesime consuetudini grafiche nelle didascalie. I gessi realizzati da Guiotto, che ritraggono i mecenati che hanno reso possibile l’operazione, differiscono però da quelli di Canova essenzialmente per quattro ragioni. Per prima cosa perché risulta impossibile trovare oggi, ad esempio, le medesime tipologie di gesso o di patine, dato che i materiali dei nostri giorni sono prodotti industrialmente. Poi per le consuetudini dello studio: Guiotto, anche se probabilmente lo avrebbe voluto, non ha mai lavorato con Canova e quindi i processi di progettazione, modellazione, calco e rifinitura sono simili, ma non perfettamente coincidenti. Inoltre per le acconciature e le barbe: mentre in Canova sono idealizzate ed essenzialmente basate sul modello classico, nei busti di Guiotto si avverte una tensione maggiore verso il ritratto realistico, benché permangano alcuni degli stilemi dello scultore neoclassico. Per ultimo perché i due secoli che separano gli autori contano anche dal punto di vista ideologico e antropologico. Ma il progetto non vede certo Guiotto mettersi in competizione, tanto più in bravura, con il collega anziano: sarebbe stupido e del tutto fuori luogo. Scopo dell’operazione, infatti, è trarre in inganno il visitatore distratto – un altro sgambetto del museo! – che viene messo nella condizione di fare confusione tra le opere dei due Antonii, messe spazialmente nello stesso piano. La strategia adottata è basata sul mimetismo delle nuove opere (Guiotto, tra l’altro, ha cercato di invecchiare la superficie trattandola con la polvere), in maniera tale che l’osservatore non esperto si confonda in un primo momento nell’attribuire la paternità dell’opera.


Senza titolo con didascalia ambisce a stimolare una narrazione divergente rispetto alle coordinate predefinite della fruizione di un museo e alle forme ordinarie in cui si trasmette la conoscenza. Il progetto cerca cioè di trasformare la visita di uno spazio espositivo in un’esperienza straniante e anarchica: un corto circuito rispetto alle modalità consuete che per certi sussiegosi parrucconi della storia dell’arte potrebbe risultare distante dalle finalità costitutive dell’istituzione. Fortunatamente così non è, perché il museo è pur sempre il luogo della meraviglia, della scoperta, del disvelarsi di nuovi dettagli che prima erano sfuggiti: è un dispositivo che serve, tra i suoi scopi, ad allargare gli strumenti interpretativi della realtà. In questo progetto l’imprevisto di un’esperienza non programmata, l’esercizio del dubbio e l’ironia sono quindi delle fondamentali forme di conoscenza. E poi, come ammoniva Gorgia, «chi inganna è più giusto di chi non inganna, e chi è ingannato è più saggio di chi non si lascia ingannare»[2].




[1] Lo Statuto di ICOM, approvato a Vienna, il 24 agosto 2007, definisce come museo «un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società, e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali ed immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, e le comunica e specificatamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto».
[2] Gorgia, frammento DK 82 B 23, in G. Reale, I presocratici, Bompiani, Milano, 2006.