I varchi del poi
Tiziana Pers, Vinci/Galesi
Milano, aA29
dicembre 2016 ― febbraio 2017
Lo sguardo dell’altro
Daniele Capra
Daniele Capra: Tu Tiziana ti occupi quasi esclusivamente di animali. Come scegli i soggetti dei tuoi lavori?
Tiziana Pers: Per lo più sono loro a scegliere me. Essendo al contempo un’attivista, mi imbatto quotidianamente nelle loro storie, incontro continuamente le loro vite, e, appena posso, agisco. Si dice che quando una storia ti tocca, in qualche modo diviene una tua responsabilità il modo in cui reagisci. Qualche volta questa responsabilità la trasformo, sublimandola nei linguaggi che conosco: trovo più pressanti le vicende dove diverse forme di dominio si sovrappongono, portando alla luce violente connessioni che appartengono alla noncuranza di quella banalità del male, di cui parlava Hannah Arendt, che ancora dobbiamo superare. Per me queste narrazioni costituiscono la domanda aperta più urgente, e necessaria.
DC: E in quale modo agisci?
TP: Quando ho margine di azione semplicemente mi muovo portando sul campo del reale quello della rappresentazione. Ad esempio con il progetto Art History propongo di scambiare con un mio dipinto un animale destinato al mattatoio, animale che poi porto in salvo, grazie anche alla collaborazione di una rete di attivisti. Chiedo di accettare una tela in cambio di una vita vera, mettendo a disposizione una parte della mia vita: ogni pittura è infatti anche il tempo che ha richiesto e occupato. E mi chiedo: è possibile dare ad una vita un valore economico? E ad un’opera? E poi ancora: può l’arte salvare concretamente una vita? E naturalmente in questi casi non scelgo mai io l’animale. È l’allevatore, il commerciante o il macellaio a farlo. Se lo facessi io, per me sarebbe come mettermi al posto di Dio, decretando chi vive e chi muore.
DC: Ma non pensi che in questo modo la tua arte rischi di essere troppo vicina al tuo essere attivista? Lo scopo dell’arte non dovrebbe essere piuttosto evidenziare delle problematicità piuttosto che cercare forme, anche parziali, di risoluzione?
TP: L’arte indaga le urgenze, personali e collettive. Ritengo che il nostro rapporto con l’altro assoluto sia una delle urgenze da affrontare: sia da una prospettiva sociale, immaginando scenari futuri, che pensando a una possibile evoluzione dell’attuale condizione dell’uomo. Nel 2001, in un’intervista, Jacques Derrida affermò come la questione dell’animalità rappresenti «il limite sul quale tutte le altri grandi questioni sono formate e determinate, così come i concetti che delimitano cosa è proprio dell’uomo, l’essenza e il futuro dell’umanità, l’etica, la politica, la legge, i diritti dell’uomo, i crimini contro l’umanità, il genocidio […]». Contrariamente a quanto dici, di soluzioni nell’immediato io non ne ho. Sono la prima ad interrogarmi, e interrogare, su quali siano le finestre, gli incontri possibili. Diventa una necessità il tentativo di placare i miei incubi con una pratica quotidiana che va dall’accudire gli animali a studiare e approfondire nuovi progetti, dallo spalare fisicamente gli escrementi al dipingere, dal curare le loro piaghe al documentare le storie, dal disegnare all’agire. Talvolta anche mettendo in discussione le barriere legali dei margini di movimento. E per me non c’è distinzione alcuna tra questi passaggi, poiché il corpo che agisce nello spazio si fa corpo politico. Nel tagliente Grattacielo di Max Horkheimer le strutture sociali poggiano le proprie fondamenta su di un macello, su «il sudore, il sangue, la disperazione degli animali». E proprio perché se guardiamo ai fondamenti della relazione non solo economica umano/animale, scopriamo che capitale deriva dal latino caput, capitis (cioè «capo di bestiame»), poiché dal bestiame è possibile ottenere ricchezza addizionale usando la carne e tutti i sottoprodotti; e il plusvalore si può anche incrementare dato che gli animali si possono riprodurre. Gli animali non sono visti come esseri senzienti, ma diventano proprietà privata, e infine misura di ricchezza: il corpo dell’altro come fondamento del capitalismo. Quindi le sole risoluzioni concrete che ottengo dalla mia ricerca sono le vite che salvo tramite i miei progetti, e non sono soluzioni per me, o te, ma proprio per loro: attraversano in ogni modo il corpo, il destino e la vita dell’altro. Cerco uno spostamento di prospettiva per porre ulteriori quesiti che riguardano la nostra vita di tutti i giorni, i meccanismi di dominio e discriminazione, la ricerca di una messa a fuoco, rendendo lo sguardo critico su di una questione che ancora è molto lontana dall’essere metabolizzata, un nodo che va guardato da tutti i punti di vista possibili. Credo che uno dei ruoli dell’arte sia quello di affondare le radici nelle fratture d’ombra del proprio tempo, e per coglierne gli aspetti oscuri è necessaria una reazione. I miei sono temi che si cerca di nascondere e respingere, perché rischiano di far vacillare la quotidianità di ciascuno di noi, la serenità di poter vivere riparati da un pensiero antropocentrico che ci fa paura anche solo mettere in discussione. Problematizzare la questione animale significa rischiare di aprirsi ad una prospettiva del tutto inedita, lontana dalla nostre certezze, che, come ogni liberazione, implica delle rotture negli schemi mentali.
DC: I mezzi cui ricorri principalmente come forma espressiva sono la pittura e talvolta il disegno. Al di là della loro strumentalità di essere un controvalore economico che ti permette di fare lo scambio opera/vita, che cosa sono per te?
TP: Entrambi i linguaggi rispondono ad un’esigenza: la necessità di dare forma. In qualche modo per me fanno parte di una narrazione ininterrotta, dove non vi è confine netto tra l’uno e l’altro linguaggio. Disegno sia su carta che su tela, alcune di queste tele poi vedono la pittura, altre in parte, mentre altre ancora rimangono nudo disegno. Entrambi occupano un tempo, il tempo della pratica. Così come non vi è confine netto tra disegno e pittura, allo stesso modo sono parte di una pratica performativa, di un percorso, dove rimangono connessi ad un prima e a un dopo. E in qualche modo ne segnano il momento più meditativo. Nello specifico il disegno costituisce il tentativo di conciliare la pulsione ideale con il reale, con cui si confrontano al contempo l’arte e il quotidiano. Per questo le linee curve si fanno lievi ed ossessive, alla ricerca del segno possibile, provando a sanare la frattura. La pittura, invece, dà corpo all’aspetto meno razionale, una sorta di rituale antico che nei modi e nei gesti sperimenta un cambio di prospettiva che si fa interno al linguaggio stesso. Gli uomini mediante la pittura rappresentano gli altri animali da più di 30 mila anni, questo è forse il legame ancestrale più radicato che lega l’umanità all’arte. Quello che mi interessa è indagare quindi se il mezzo pittorico sia in grado oggi di rendere non solo una rappresentazione, ma, in qualche modo, un vissuto. Se tramite la pratica, i diversi strati della pittura, sia possibile riconoscere l’altro assoluto, comprendere sguardi che non ci appartengono, riscoprire forse anche una parte di noi, che abbiamo a lungo sedato.
DC: E per te, Sasha, che cos’è il disegno? Perché è così importante nella tua pratica? A cosa ti serve? Che uso ne fai?
Sasha Vinci: È profumo di grafite, di pigmenti, di inchiostri, di oli, di essenze naturali, di argilla, odore epidermico della mia pelle. Oggi, a fine novembre 2016, penso al disegno e ricordo un episodio del maggio 1985. A Scicli, via Enrico Toti era un selciato bianco, non ancora affogato nell’asfalto. All’improvviso, un suono ritmato giungeva da lontano. Un cavallo al trotto con nobile andatura procedeva verso i ruderi del Convento dei Cappuccini. Era il giorno della monta. Il ferro degli zoccoli, battendo sulla pietra calda, emetteva un suono magico. Aprii la porta di casa gridando con i toni alti di un bambino: «u cavaddu, u cavaddu». In un istante mi lanciai in una folle corsa, ma dopo pochi passi inciampai su una pietra leggermente rialzata. La caduta era inevitabile. L’ennesimo squarcio ai vestiti, alle ginocchia, ai gomiti. «Chi la sente mia madre», pensai. Lesto mi sollevai da terra e zoppicando ripresi la corsa, non per seguire il cavallo, ma per nascondermi nella piccola casa della zia ‘nCilina, un’anziana donna del quartiere. Nessun legame di parentela, solo un infinito tenero affetto. Ella era abile nell’occultare, alla vista di mia madre, gli strappi e le sbucciature che quotidianamente mi procuravo. Amorevolmente curò le ferite e ricucì i vestiti lacerati dalla caduta. Io, bambino, piangevo per il dolore. Finito di rammendare, con i pochi denti tagliò il filo di cotone e svestì l’ago, si mosse verso il tavolo e da un cassetto tarlato tirò fuori dei fogli spiegazzati, una matita, dei colori spuntati e disse: «forza Sashiuzzu disegna u cavaddu, accussi ti passa u ruluri». Logicamente non avevo mai disegnato un cavallo. La matita iniziò a scivolare sul foglio, ad intervalli irregolari chiudevo gli occhi qualche istante per ricordare le forme fiere dell’animale, quando li riaprivo le linee continuavano a sovrapporsi, a incrociarsi. Non ricordo il tempo impiegato nel realizzare il disegno, ricordo soltanto che la figura prendeva forma e il dolore alle ginocchia e ai gomiti si leniva, e pensavo, «minchia funziona». Completata l’opera mi alzai dal tavolo per osservare con la giusta prospettiva il foglio. La voce della zia ‘nCilina esclamò: «chieca è?». Effettivamente non sembrava un cavallo, piuttosto una chimera. Gettai la matita per terra, uscii dalla piccola casa per riprendere zoppicante la corsa verso il convento. La monta era appena iniziata, non potevo perderla. Da quel lontano ’85 diverse chimere hanno attraversato la mia vita, fissando in modo indelebile la loro esistenza sulla carta. Il segno è la linea della vita che quotidianamente percorro, e incessantemente ne osservo il mutare, verso nuove forme di rappresentazioni mentali ed estetiche. Idee e concetti si accordano sul foglio creando mondi complessi, spazi aperti tra ordine e caos dove agire, per raccontare la pluralità delle storie in cui mi sento coinvolto.
DC: Conta molta la tua storia personale nella tua ricerca?
SV: Tutte le opere che ho creato riflettono i ritmi della mia vita. Inizialmente la ricerca era alimentata dall’io, dalle ombre dell’inconscio, dalle tensioni familiari, dalle pulsioni sessuali ed erotiche inconfessate. Con il trascorrere del tempo, al viaggio si aggiungono nuovi desideri, nuove motivazioni, la dimensione personale incontra lo sguardo dell’altro: nuove e differenti ricerche prendono forma. Oggi partecipo attivamente al presente, ed esamino gli andamenti umani, naturali, sociali, politici. Le contraddizioni e le evoluzioni della realtà contemporanea diventano il Teatro Vivo in cui respiro, abito ed esisto.
DC: Il teatro è anche la modalità che sta dietro al lavoro a quattro mani con Maria Grazia Galesi. I viaggiatori indossavano il fuoco della bellezza inscena la potenza di una rappresentazione religiosa in cui i fiori mostrano la propria bellezza celando l’identità delle persone…
SV: Il théatron è lo spettacolo della vita, la comunità in cui ho scelto di vivere, interagire, creare: la città di Scicli, un teatro vivo che trasmette conoscenze, emozioni e mi sussurra le storie del tempo. La piccola città diventa il luogo in cui esplorare il mistero della condizione umana: il punto di origine di uno sguardo che si irradia sulle condizioni del mondo. A Scicli, inoltre, l’incontro con Maria Grazia Galesi sancisce la nascita di un percorso condiviso. Il fiore diventa il simbolo di un legame che caratterizza e bilancia le nostre complessità individuali. Da un elemento naturale germoglia infatti una diversa ricerca, in cui due personalità trovano equilibrio e conciliazione. I viaggiatori indossavano il fuoco della bellezza è un’opera in cui l’antica ritualità del fiore tenta di ricucire gli strappi sociali e risanare le ferite che i giochi di potere infliggono alle società contemporanee e ai popoli della terra: un’iconografia per far fiorire nel cuore delle persone il valore delle diversità, un canto alle alterità. In uno spazio indefinito, imparziale e bianco: gerbere, crisantemi, un cerimoniale laico. Dai corpi sbocciano fiori di carne e si colora il possibile: un viaggio per esistere nell’altro.
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