Chiara Calore, Greta Ferretti
Io è un’altra

D3082, Venezia
marzo ― giugno 2021


Io è un’altra
Daniele Capra



Nella celebre Lettera del veggente, indirizzata a Paul Demeny quando aveva solo sedici anni, Arthur Rimbaud teorizza come il poeta debba saper indagare se stesso, oltre ogni confine. Il primo impegno dell’uomo che voglia essere poeta, scrive, «è la sua propria conoscenza, intera; egli cerca la sua anima, l’indaga, la tenta, l’impara. Appena la conosce, deve coltivarla». È necessario infatti «fare l’anima mostruosa», assecondando ogni sua tendenza senza troppo curarsi dei vincoli morali: per oltrepassare le secche dell’ordinarietà occorre farsi veggente «mediante un lungo, immenso e ragionato disordine di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di pazzia». In questa spasmodica indagine il poeta, nei pensieri di Rimbaud, assume anche un ruolo civile nei confronti degli uomini, poiché egli è, prima di tutto, «un ladro di fuoco; ha l’incarico dell’umanità, degli animali addirittura; dovrà far sentire, palpare, ascoltare le sue invenzioni; se ciò che riporta di laggiù, ha forma, egli dà forma; se è informe, egli dà l’informe» [1].
Tale processo presuppone inevitabilmente un metodo, in parte inconsapevole, basato non più sul ripercorrere le emozioni nella calma placida e serafica del distacco emotivo [2], ma su una sorta di doppio movimento: all’inizio centripeto/introspettivo e a seguire centrifugo/estroversivo. Se il il primo ha la funzione maieutica di un’autoanalisi, il secondo ha lo scopo di proiettare la propria persona al di là della frontiera della propria identità, nella ricerca di ogni possibilità inattesa. È nella ricerca di quel limite, nel tentativo di volare per ricercare l’abisso che Rimbaud trova il senso ultimo della poesia, della sua sfuggente, indicibile e cruda autenticità. Una verità che va vissuta in prima persona dal poeta, nella consapevolezza che, in ultima istanza, «io è un altro» [3].

Io è un’altra rintraccia e testimonia quello stesso intenso desiderio di conoscenza e quell’illimitata urgenza esplorativa, avvertita da Rimbaud, nelle opere di Chiara Calore e Greta Ferretti, la cui ricerca è alimentata da una continua necessità immaginifica mirata a sondare l’alterità, grazie a un’identità individuale plurima e che agisce senza alcun tipo di vincolo per proiezione, amplificazione o deflagrazione (il titolo della mostra è la declinazione femminile della frase del poeta francese). Le giovani artiste praticano infatti una pittura caratterizzata da una figurazione articolata, destabilizzante e anarchica, nella quale elementi realistici sono abilmente mescolati all’inaspettato. Ciò che è estraneo, deforme o mostruoso si materializza sulla superficie pittorica in forma interrogativa, mentre sia la composizione che l’anatomia dei soggetti rappresentati sono turbate da metamorfosi e trasformazioni imprevedibili, nelle quali si combinano liberamente gli immaginari della mitologia, del bizzarro, del racconto gotico e di una fervida immaginazione. Il repentino cambio di registro stilistico e l’accostamento tra situazioni narrativamente improbabili (o fisicamente impossibili) sono le modalità ricorrenti che le artiste mettono in atto per innescare il cortocircuito tra i differenti elementi visivi presenti sulla scena, che vengono di volta in volta caricati di senso, di mistero, di irriverente ironia o di inquietante densità psichica. L’osservatore è tenuto in scacco dall’impossibilità di ricondurre l’immagine a una logica intellegibile al contrario di quanto la figurazione apparentemente suggerirebbe. Quello che risulta chiaro nelle loro opere è infatti, per coloro che si sforzano di capire, un falso indizio, una strada sbagliata che conduce a un cul-de-sac. La narrazione – tanto nei lavori più ritmici/spezzettati di Calore quanto in quelli più lirici/riflessivi di Ferretti – prelude cioè a una evoluzione non attesa, a qualche evento in grado di alterare il flusso diegetico: sta per accadere altro, ciò a cui non avevamo pensato. Le loro opere vanno così pensate come diaboliche sentinelle che conducono l’osservatore in un altrove da immaginare, interrogandolo, spronandolo a tenere alta l’attenzione. E pare di sentirlo, a distanza, il riso beffardo di David Lynch.

La pittura di Chiara Calore è alimentata dalla continua giustapposizione dei più diversi aspetti figurativi, accostati sulla tela in forma ironica, conturbante e visionaria. Le sue opere sono caratterizzate da un’atmosfera lisergica e destabilizzante, in cui elementi animali e umani, proiezioni personali, autoritratti appena accennati e rimandi a opere della storia dell’arte si combinano in modo surreale e caustico. Un ammasso bizzarro e inverosimile di uomini, cani, cavalli, gatti, pavoni e freaks agita in maniera anarchica i lavori dell’artista, in una selva di rimandi. È una pittura che, come scrive Amerigo Nutolo, «tende all’astrazione dei soggetti, a narrazioni impetuose, incentrate su movimenti di fuga, sintesi, tensioni interne al rapporto con la superficie» [4], costringendo l’osservatore a dibattersi continuamente tra visione d’insieme e lettura dei dettagli, tra racconto principale e microepisodio narrativo. Prende così forma una danza sfrenata, primitiva e travolgente, dove i soggetti fluttuano sulla superficie. Fantasmi sgraziati, seducenti e senza redenzione, immersi in un’orgia di colore.

L’opera di Greta Ferretti è caratterizzata da una forte tensione narrativa e un’intensa carica psicanalitica. I suoi lavori su tela e su carta raccontano storie curiose e fatti paradossali vissuti dai protagonisti in forma apparentemente inconsapevole, immersi in un’atmosfera surreale e kafkiana. Nei suoi dipinti i soggetti umani danno l’impressione di cercare una relazione possibile con il contesto, con gli oggetti animati e inanimati da cui sono circondati. Sembrano però inspiegabilmente cause e vittime di situazioni assurde, bislacche o imbarazzanti, i cui effetti indesiderati si stanno per manifestare agli occhi dell’osservatore. Il senso di sospensione è rafforzato da un’attenta composizione, da uno stile asciutto e misurato dominato da colori liquidi ed evanescenti (sovente resi ricorrendo all’acquarello e all’inchiostro), e inoltre dall’alternanza tra dettagli con funzione rappresentativa ed elementi di contesto cancellati dall’artista. Evidentemente conscia del potere del silenzio, Ferretti evidenzia così le imprevedibili antilogie del comportamento umano e il turbamento emotivo originato dal continuo ricombinarsi di realtà, vuoto e proiezione onirica.



[1] A. Rimbaud, Opere, trad. I. Margoni, Feltrinelli, Milano, 1964, p. 141-142.
[2] Cfr. W. Wordsworth, Preface to Lyrical Ballads: «I have said that poetry is the spontaneous overflow of powerful feelings: it takes its origin from emotion recollected in tranquillity».
[3] Op. cit., p. 143.
[3] A. Nutolo, Opera viva, cat. della mostra, Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia, 2019. p. 12.