Larger Than Borders
Armando Lulaj, Alban Muja, Studio203, Driant Zeneli
Trieste, Studio Tommaseo
ottobre 2013
TestoLe opere
Comodi stereotipi
Daniele Capra
La mostra Larger Than Borders raccoglie i video di giovani artisti che si relazionano con l’Albania o la cultura Albanese, differenti però per tipologia, contenuto, temi ed approccio. Nei loro lavori la cultura albanese è essenzialmente il terreno comune, il punto di partenza della loro ricerca, che finisce per essere, per lo spettatore, solo uno stereotipo da cui liberarsi.
L’idea di nazione, di lingua comune, di kulturation matura compiutamente nel XIX secolo ed è stata una delle idee per cui si son o incendiati i cuori dando sfogo alle passioni più forti e ai peggiori istinti dell’uomo. La storia dei nostri ultimi cento anni ne conserva ancora tragicamente i segni.
Oggi, benché permangano ancora molte differenze (di ordine sociale, religioso ed economico), il nostro mondo – grazie anche alle forti spinte del capitalismo continuamente animato dalla necessità di cercare nuovi mercati e nuovi lavoratori disponibile a farsi schiavizzare per l’aspettativa di un minimo benessere – si è rimpicciolito, i luoghi si sono riavvicinati, e la nazione è diventata frequentemente una delle tante tag con cui si esplicita la nostra personale tassonomia, o al massimo uno strumento che la politica usa per manipolare le masse.
Radicalizzando potremmo dire che una nazione è cioè qualcosa che non esiste se non nelle teste delle persone che usano la parola che la descrive. Risulta infatti superata l’idea stessa di confine che contiene/trattiene lo spazio di una nazione, che è diventato per lo più un mero esercizio di topologia da vecchi geografi incalliti che si muovono sul piano cartesiano. I confini, infatti, esistono solo per essere sorpassati.
Questo è ancora più vero per l’Albania, una nazione che ha dei legami strettissimi con il vicino Kosovo in cui si parla la medesima lingua, ma anche delle forti relazioni con la Turchia o la dirimpettaia Italia. Benché l’Albania possa sembrare geograficamente di ridotte dimensioni, il concetto di «albanese», infatti, scavalca agilmente la limitatezza di quei confini dentro cui sono nascosti i nostri comodi stereotipi.
Daniele Capra
La mostra Larger Than Borders raccoglie i video di giovani artisti che si relazionano con l’Albania o la cultura Albanese, differenti però per tipologia, contenuto, temi ed approccio. Nei loro lavori la cultura albanese è essenzialmente il terreno comune, il punto di partenza della loro ricerca, che finisce per essere, per lo spettatore, solo uno stereotipo da cui liberarsi.
L’idea di nazione, di lingua comune, di kulturation matura compiutamente nel XIX secolo ed è stata una delle idee per cui si son o incendiati i cuori dando sfogo alle passioni più forti e ai peggiori istinti dell’uomo. La storia dei nostri ultimi cento anni ne conserva ancora tragicamente i segni.
Oggi, benché permangano ancora molte differenze (di ordine sociale, religioso ed economico), il nostro mondo – grazie anche alle forti spinte del capitalismo continuamente animato dalla necessità di cercare nuovi mercati e nuovi lavoratori disponibile a farsi schiavizzare per l’aspettativa di un minimo benessere – si è rimpicciolito, i luoghi si sono riavvicinati, e la nazione è diventata frequentemente una delle tante tag con cui si esplicita la nostra personale tassonomia, o al massimo uno strumento che la politica usa per manipolare le masse.
Radicalizzando potremmo dire che una nazione è cioè qualcosa che non esiste se non nelle teste delle persone che usano la parola che la descrive. Risulta infatti superata l’idea stessa di confine che contiene/trattiene lo spazio di una nazione, che è diventato per lo più un mero esercizio di topologia da vecchi geografi incalliti che si muovono sul piano cartesiano. I confini, infatti, esistono solo per essere sorpassati.
Questo è ancora più vero per l’Albania, una nazione che ha dei legami strettissimi con il vicino Kosovo in cui si parla la medesima lingua, ma anche delle forti relazioni con la Turchia o la dirimpettaia Italia. Benché l’Albania possa sembrare geograficamente di ridotte dimensioni, il concetto di «albanese», infatti, scavalca agilmente la limitatezza di quei confini dentro cui sono nascosti i nostri comodi stereotipi.
Comodi stereotipi
Daniele Capra
Armando Lulaj
It wears as it grows, 2011, video b/n e colori, suono, 18’
Uno scheletro di cetaceo è portato in giro da un gruppo di ragazzi, dalla periferia di Tirana fino al centro della città, in mezzo al traffico disordinato della capitale, per trovare poi posto nella piramide fatta costruire come mausoleo del dittatore Hoxha. È un capodoglio abbattuto per errore negli anni Sessanta dalla marina albanese, che in un frangente di paranoia da attacco nemico, lo aveva scambiato per un sottomarino. Successivamente quello scheletro aveva trovato posto nel Museo di Storia Naturale, che però è stato chiuso da anni per lasciar posto ad anonimi palazzi. Ora giace in un magazzino polveroso come l’ennesimo pezzo della propria storia recente che l’Albania vuol dimenticare. È uno stile rigoroso (caratterizzato da camera fissa e movimenti calibrati) quello di Armando Lulaj per It wears as it grows, che realizza un film in cui i registri del documentario e dell’orazione civile si mischiano in forma poetica e distillata. Non c’è spazio per la fantasia dello spettatore o per qualche compiacimento fatalista. La realtà bussa alla porta anche se coloro che dovrebbero prestare attenzione, girando l’orecchio altrove, fingono di non sentire.
Alban Muja
Palestina, 2005, video a colori, suono, 6’40’’
Una narrazione in prima persona fatto da una ragazza kosovara con un nome particolare – Palestina – che racconta uno dei pezzi più travagliati della nostre vicende recenti. Una storia fatta della violenza subita dal popolo palestinese, ma anche dalla volontà di ricordare un gesto d’amore che va ben oltre alle curiosità delle persone cui viene in mente sempre la stessa domanda: perché? Palestina è una delle prime opere di Alban Muja, fatta con scarsi mezzi, ma con l’intelligenza di sapersi mettere in disparte per far accadere gli eventi trasformando una persona comune in autore che interpreta se stesso.
Blu Wall Red Door, 2010, video a colori, suono, 32’10’’
Come ci si può muovere in una città luogo in cui le strade non hanno un nome e i riferimenti delle persone sono i negozi, degli alberi, o delle vecchie costruzioni che non ci sono più? Come fanno i postini a consegnare le lettere se le strade hanno cambiato nome così spesso negli ultimi vent’anni a tal punto che gli abitanti ignorano il proprio indirizzo di casa? Blu Wall Red Door è un documentario ed un’inchiesta allo stesso tempo, dallo stile ritmato ed informale, in cui Alban Muja si mette in gioco in prima persona e, come un giornalista televisivo con cameramen al seguito, traccia un profilo inaspettato di Prishtina. La capitale del Kosovo, arresa all’instabilità della politica degli ultimi vent’anni che si è ripercossa nei nomi delle vie, non possiede una toponomastica certa e condivisa dai propri cittadini, cui non rimane che orientarsi a tentativi.
Studio203
HISTŒRI removing, 2012, video a colori, suono, 3’52’’
L’opera documenta una performance realizzata dagli autori in cui viene srotolato uno striscione con la scritta “histery” – aiutati da alcuni bambini, casualmente incontrati, che stavano giocando sul posto – sulla copertura della piramide che celebra Enver Hoxha. Costruito negli anni Ottanta nel centro di Tirana, dopo la caduta del regime l’edificio è stato spogliato della copertura di marmo e progressivamente è andato in rovina, indigesto alla gente comune che vi scorgeva il segno del regime, e nel contempo ignorato dai politici, i quali hanno votato recentemente una mozione per usare quello spazio per costruire la nuova sede del parlamento. Eppure quell’edificio è uno dei pochi esempi di modernismo albanese, ed è parte di quel patrimonio culturale della nazione di cui pochi fino ad ora si sono curati. In HISTŒRI removing Studio 203 ha posto al centro della propria ricerca l’analisi della disordinata evoluzione urbana della capitale albanese, come esempio conflitto irrisolto tra le ferite della storia e la mediocrità del presente.
Driant Zeneli
Those who tried to put the rainbow back in the sky, 2012, video a colori, suono, 3’52’’
Tre persone sul ponte di una nave, accompagnate da un’anatra. Senza un’apparente direzione, senza uno scopo dichiarato, in attesa che qualcosa accada. Poi un casale rinvenimento: un pezzo di arcobaleno, forse di cemento, vivacemente dipinto. Ma cosa fare di quel pezzo di muro colorato? Dubbi, idee, molte delle quali taciute, e alla fine la decisione, durante il tramonto, di collocarlo in cima alla nave, restituendolo al suo essere elemento aereo ed etereo. Poi un’inquadratura rivela il teatro nascosto dietro alle persone e mostra la realtà che mai lo spettatore si sarebbe immaginato. Con echi che ricordano 8½, l’opera di Zaneli è una metafora della perdita dell’innocenza e dell’impossibilità di trovare soluzioni univoche alle problematiche esistenziali dell’uomo, cui non resta che accettare mestamente la propria intima fragilità.
Daniele Capra
Armando Lulaj
It wears as it grows, 2011, video b/n e colori, suono, 18’
Uno scheletro di cetaceo è portato in giro da un gruppo di ragazzi, dalla periferia di Tirana fino al centro della città, in mezzo al traffico disordinato della capitale, per trovare poi posto nella piramide fatta costruire come mausoleo del dittatore Hoxha. È un capodoglio abbattuto per errore negli anni Sessanta dalla marina albanese, che in un frangente di paranoia da attacco nemico, lo aveva scambiato per un sottomarino. Successivamente quello scheletro aveva trovato posto nel Museo di Storia Naturale, che però è stato chiuso da anni per lasciar posto ad anonimi palazzi. Ora giace in un magazzino polveroso come l’ennesimo pezzo della propria storia recente che l’Albania vuol dimenticare. È uno stile rigoroso (caratterizzato da camera fissa e movimenti calibrati) quello di Armando Lulaj per It wears as it grows, che realizza un film in cui i registri del documentario e dell’orazione civile si mischiano in forma poetica e distillata. Non c’è spazio per la fantasia dello spettatore o per qualche compiacimento fatalista. La realtà bussa alla porta anche se coloro che dovrebbero prestare attenzione, girando l’orecchio altrove, fingono di non sentire.
Alban Muja
Palestina, 2005, video a colori, suono, 6’40’’
Una narrazione in prima persona fatto da una ragazza kosovara con un nome particolare – Palestina – che racconta uno dei pezzi più travagliati della nostre vicende recenti. Una storia fatta della violenza subita dal popolo palestinese, ma anche dalla volontà di ricordare un gesto d’amore che va ben oltre alle curiosità delle persone cui viene in mente sempre la stessa domanda: perché? Palestina è una delle prime opere di Alban Muja, fatta con scarsi mezzi, ma con l’intelligenza di sapersi mettere in disparte per far accadere gli eventi trasformando una persona comune in autore che interpreta se stesso.
Blu Wall Red Door, 2010, video a colori, suono, 32’10’’
Come ci si può muovere in una città luogo in cui le strade non hanno un nome e i riferimenti delle persone sono i negozi, degli alberi, o delle vecchie costruzioni che non ci sono più? Come fanno i postini a consegnare le lettere se le strade hanno cambiato nome così spesso negli ultimi vent’anni a tal punto che gli abitanti ignorano il proprio indirizzo di casa? Blu Wall Red Door è un documentario ed un’inchiesta allo stesso tempo, dallo stile ritmato ed informale, in cui Alban Muja si mette in gioco in prima persona e, come un giornalista televisivo con cameramen al seguito, traccia un profilo inaspettato di Prishtina. La capitale del Kosovo, arresa all’instabilità della politica degli ultimi vent’anni che si è ripercossa nei nomi delle vie, non possiede una toponomastica certa e condivisa dai propri cittadini, cui non rimane che orientarsi a tentativi.
Studio203
HISTŒRI removing, 2012, video a colori, suono, 3’52’’
L’opera documenta una performance realizzata dagli autori in cui viene srotolato uno striscione con la scritta “histery” – aiutati da alcuni bambini, casualmente incontrati, che stavano giocando sul posto – sulla copertura della piramide che celebra Enver Hoxha. Costruito negli anni Ottanta nel centro di Tirana, dopo la caduta del regime l’edificio è stato spogliato della copertura di marmo e progressivamente è andato in rovina, indigesto alla gente comune che vi scorgeva il segno del regime, e nel contempo ignorato dai politici, i quali hanno votato recentemente una mozione per usare quello spazio per costruire la nuova sede del parlamento. Eppure quell’edificio è uno dei pochi esempi di modernismo albanese, ed è parte di quel patrimonio culturale della nazione di cui pochi fino ad ora si sono curati. In HISTŒRI removing Studio 203 ha posto al centro della propria ricerca l’analisi della disordinata evoluzione urbana della capitale albanese, come esempio conflitto irrisolto tra le ferite della storia e la mediocrità del presente.
Driant Zeneli
Those who tried to put the rainbow back in the sky, 2012, video a colori, suono, 3’52’’
Tre persone sul ponte di una nave, accompagnate da un’anatra. Senza un’apparente direzione, senza uno scopo dichiarato, in attesa che qualcosa accada. Poi un casale rinvenimento: un pezzo di arcobaleno, forse di cemento, vivacemente dipinto. Ma cosa fare di quel pezzo di muro colorato? Dubbi, idee, molte delle quali taciute, e alla fine la decisione, durante il tramonto, di collocarlo in cima alla nave, restituendolo al suo essere elemento aereo ed etereo. Poi un’inquadratura rivela il teatro nascosto dietro alle persone e mostra la realtà che mai lo spettatore si sarebbe immaginato. Con echi che ricordano 8½, l’opera di Zaneli è una metafora della perdita dell’innocenza e dell’impossibilità di trovare soluzioni univoche alle problematiche esistenziali dell’uomo, cui non resta che accettare mestamente la propria intima fragilità.