Le diable au corps
Sabrina Annaloro, Romina Bassu, Nicolò Bruno, Chiara Calore, Giulio Catelli, Nebojša Despotović, Olga Lepri, Paolo Pretolani, Adelisa Selimbašić, Davide Serpetti, Flaminia Veronesi, Maria Giovanna Zanella
Galleria Bonelli, Canneto sull’Oglio
maggio – ottobre 2024
Il saggio sulla mostraGli artisti
Ti voglio perché non sei mio
Daniele Capra
Guardo, tocco, desidero
Vista e tatto, tra tutti i nostri sensi, incarnano delle modalità di relazione con il mondo del tutto antitetiche. In particolare, gli occhi sono l’organo della distanza e la pelle quello della prossimità. L’occhio produce immagini che abbisognano di essere decodificate ed elaborate perché sono proiezioni di qualcosa che è necessariamente ‘altro e altrove’, dato che, per questioni ottiche, risulta impossibile vedere un oggetto collocato vicino al globo oculare (mentre per esempio posso avvertire un odore sia a distanza che a contatto con il naso). È un organo che agisce cioè in forma centrifuga ed espansiva, mi avverte e informa della molteplicità, e contribuisce a rompere il mio isolamento avvisandomi in questo modo di non essere l’unica entità esistente al mondo (o in quel ritaglio in cui sto vivendo). La pelle, al contrario, sente direttamente su di sé, attraverso il contatto e la pressione, qualcosa che è ‘io e qui’. Agisce in forma centripeta, registrando attraverso la presenza dell’altro il mio esistere. Conferma quindi il mio volume in quel momento, mi dice che sono corpo, e che, come scrive Jean-Paul Sartre, “esisto il mio corpo” e “il mio corpo è utilizzato e conosciuto da altri”. Inoltre, in maniera reciproca, “in quanto io sono per altri, altri mi si manifesta come il soggetto per il quale io sono oggetto”[1]. Vista e tatto convalidano infatti la mia esistenza all’interno di un sistema di relazioni in cui abito il mio corpo, che a sua volta abita il mondo. In particolare, “il corpo è anche necessario come l’ostacolo da superare per essere nel mondo, cioè l’ostacolo che io sono a me stesso”[2]. Io, per essere un ente senziente (cioè per esistere nella compiutezza di una relazione con il mondo che conosco coi sensi), ho bisogno di avere un corpo: la sua esistenza mi identifica come ‘soggetto’, come persona, e mi rende altresì ‘oggetto’ all’altro. E senza il corpo, senza la pelle che lo contiene e la vista che permette al mondo di farsi avvertire, dato che il mondo bussa alla nostra porta attraverso la vista, non ci sarebbe alcuna possibilità di desiderare.
Mancanza e distanza sotto le stelle
Presupposto del desiderio è percepire la propria identità soggettiva, il senso di mancanza o d’incompiutezza, la distanza e la diversità. Se infatti “il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro”[3], esso è originato dall’incomprimibile necessità di proiettarsi al di fuori, oltre al comodo e confortevole perimetro del sé. La parola ‘desiderio’ deriva dal latino ‘de-siderare’, col probabile significato di “cessare di contemplare le stelle a scopo augurale” [4] (osservare il cielo a scopo divinatorio era in antichità una pratica consuetudinaria), indicando lo spostamento di attenzione verso qualcosa di visivamente più vicino. La voce è composta da sidus, -eris, che significa ‘stella’ o ‘astro’, ed è preceduta dal suffisso de, che potrebbe invece indicare lontananza o provenienza. L’etimologia, che non è univoca, nasconde così due sensi contraddittori/complementari: il primo è anelare qualcosa che è distante dalle stelle, quindi fortemente terreno e vicino alla nostra condizione di uomini; il secondo è bramare qualcosa che dalle stelle è originato e proviene nella mia direzione. In entrambi i casi il desiderio si materializza come un appetito inappagato, come una sazietà che ancora non si manifesta tenendomi in scacco, come un’identità che non riesce a bastare a se stessa. Il desiderio è infatti la registrazione di un’incompiutezza, la testimonianza di un’assenza che ci si auspica di colmare.
Il figlio della mancanza e dell’ingegno
‘Eros’ in greco indica sia la divinità che lo stesso desiderio. Eros, come Platone fa dire a Socrate nel Simposio, è figlio di Penia e Poros. La prima rappresenta la mancanza, la miseria, mentre il secondo è la personificazione dell’ingegno e del desiderio di conoscenza. Eros per sua natura ha così sempre bisogno di ricercare qualcosa che ancora non possiede, e ‘incarna’ cioè il desiderio. È “povero e tutt’altro che delicato e bello, come i più se lo figurano; anzi è grossolano, mezzo selvatico, sempre scalzo, vagabondo, dorme sempre per terra, allo scoperto, davanti agli usci e nelle strade, sotto il sereno, perché ha la natura della madre ed è tutt’uno con la miseria. Per parte del padre, invece, è fatto per insidiare ciò che è bello e buono, essendo di natura virile, audace, violento, gran cacciatore, sempre pronto a tramare inganni, amico del sapere, ricco di espedienti, tutta la vita dedito a filosofare”
[5]. Il desiderio, nel dialogo platonico, scaturisce psichicamente come tentativo di porre argine a una condizione di insufficienza; e poi diventa ben di più: tentativo, prova, strategia ardimentosa. È uno stimolo che si propaga, che diventa una sorgente che esprime il soggetto desiderante e bagna il terreno che ne è toccato. E inevitabilmente, come osservava Rainer Maria Rilke, “chi si effonde come fonte viene conosciuto dalla conoscenza” [6]. Il desiderio, infatti, è anche uno strumento che attiva l’interesse per ciò che non si conosce, un dispositivo che innesca necessariamente il superamento dello status quo alla ricerca del piacere corporeo e insieme interiore.
Corpo, godimento e confine
Sfioramenti, carezze, graffi, soffi, sfregamenti, baci, morsi, suzioni, titillamenti, pressioni, massaggi, solletico: il corpo trova piacere nel toccare e nell’essere toccato. Come scrive Jean-Luc Nancy, “gode a essere premuto, pesato, pensato dagli altri corpi e gode nell’essere quello che preme e pesa e pensa gli altri corpi. I corpi godono e sono goduti dai corpi. […] Il corpo goduto si estende in tutti i sensi, rendendo sensato tutto e niente al tempo stesso. Il corpo goduto è come il puro segno-di-sé, ma non è né segno né sé. Il godere stesso è un corpus di zone, di masse, spessori estesi, areole offerte, tatto moltiplicato e diviso” [7]. La pelle avverte e registra la fisicità del contatto, l’intensità del confronto tra le superfici, il reciproco adeguarsi delle due parti che si toccano. Per trovare il proprio piacere il corpo deve nutrirsi della presenza tattile e ponderale dell’Altro. Il sé-corpo esiste nella continua negoziazione con la presenza dell’Altro, gode della condivisione della propria materia e dell’essere confine che subisce o causa arretramenti e sconfinamenti.
Desiderio e immagine
Non vediamo corpi, ma immagini di corpi che mostrano il proprio perimetro, il proprio confine. Immagini che i miei occhi trasmettono in uno spazio dentro di me che provvede – in base alle mie esperienze, alla mia cultura, alle mie inclinazioni, alle mie fobie o ai miei amori – a ordinare, fissare nella memoria, trattenere. Il nostro desiderio è un archivio attivo di immagini (e di sensazioni) nel quale molte di quelle che ci creano piacere mancano, o sono ancora troppo scarse. Penia è in agguato: è la mancanza a spingerci a rompere gli indugi, ad allarmare Poros che sta vegliando. Infatti, come scrive Jean-Luc Nancy, “il desiderio presuppone il suo piacere” [8]. Non può attendere infinitamente, non può essere continuamente soddisfatto, altrimenti cessa. Il desiderio è infatti l’aspettativa di un piacere, l’attesa preventiva di un’immagine di piacere e, probabilmente, “potremmo dire che ciò che chiamiamo ‘immagine’ è ciò con cui entriamo in un rapporto di piacere” [9]. Il desiderio stesso, reso ‘immagine’, può essere “soggetto od oggetto della rappresentazione, ma anche l’uno e l’altro contemporaneamente. Il desiderio è soggetto quando il quadro mostra sia ciò che un soggetto desidera, sia il suo desiderio (che questo soggetto sia il pittore o lo spettatore, fa tutt’uno), mentre è oggetto quando mostra il desiderio all’opera” [10].
Trattenuti dal vecchio marinaio
L’immagine è fonte per chi guarda ed è foce per chi la realizza. Infatti l’osservatore sente l’acqua di risorgiva che gorgoglia, mentre l’artista avverte il liquido intenso e inesorabile riversarsi dell’immagine nel mondo. Per chi guarda, l’immagine è una domanda cui rispondere, per chi la mette al mondo è una domanda posta al mondo. Proprio per questa funzione interrogativa le immagini abbisognano di qualcuno che presti attenzione al loro esistere, che si faccia fermare e ascolti la loro voce, a volte volontariamente, a volte per la loro impertinente personalità, come il Vecchio Marinaio fa con il giovane invitato a nozze ne La ballata del vecchio marinaio [11]. Nella poesia di Samuel Taylor Coleridge il barbuto uomo di mare ferma casualmente il giovane uomo e lo trattiene con il proprio sguardo magico. Lo immobilizza ad ascoltare il suo racconto, annullando il desiderio di andarsene che il ragazzo aveva manifestato, grazie al suo occhio scintillante e incantatore. Quella tensione magnetica è la stessa che alcune immagini possiedono, grazie alla quale ci trattengono costringendoci a prestare loro attenzione in una condizione di stasi contemplativa, per la quale risulta impossibile volgere la nostra attenzione altrove. Le immagini significative, infatti, sono allo stesso tempo un fardello e una delizia: ‘imprigionano’ chi le guarda, e non smettono di rivolgere quelle domande cui non è mai possibile rispondere in maniera esaustiva.
Non vedi l’aura?
Le immagini di per sé possono essere fonte di desiderio erotico, quando mostrano un corpo, un suo dettaglio, delle particolari situazioni o un oggetto che al corpo allude. Il nudo non è necessariamente un soggetto erotico, benché spesso gli artisti sappiano costruire delle situazioni complesse in cui i limiti siano molto più confusi e i margini indefinibili: per esempio il pudico candore o la dolcezza di un abbraccio possono generare nell’osservatore la lascivia più sfrenata; oppure il mostrare il piacere del soggetto rappresentato può innescare il desiderio di riprovare quello stesso piacere – da noi conosciuto – che vediamo nel corpo degli altri. Il corpo nudo offerto a chi guarda rappresenta però una difformità rispetto alla nostra condizione ordinaria, in cui viviamo ricoperti dagli indumenti. Per quanto le immagini di nudità siano state ampiamente sdoganate negli scorsi decenni al punto da esserne invasi, l’immagine pittorica che mostra la nudità possiede un vantaggio. È ‘atipica’, aspetto che in qualche modo le consente di sfuggire alla banalità delle altre immagini che popolano il mondo: per il fatto di possedere una dimensione fisica, cioè un ingombro immodificabile; per la sua unicità materiale; per il fatto di essere il precipitato irripetibile delle azioni messe in atto dallo stesso artista. Ma l’aura delle opere è davvero del tutto svanita?
Nonostante tutto, il desiderio
Il romanzo breve di Raymond Radiguet Le diable au corps [12] narra di una relazione proibita nel corso della Prima guerra mondiale fra due giovanissimi amanti, uno svogliato studente liceale e una donna sposata, moglie di un soldato in guerra. Con una prosa nervosa e carica di vivide immagini, Radiguet racconta la storia di un amore travolgente all’epoca ritenuto inaccettabile (si scoprì solo dopo la sua morte, avvenuta a soli vent’anni lo stesso anno della pubblicazione del libro, che le vicende raccontate sono in parte autobiografiche). Il protagonista maschile, di cui non sappiamo il nome, è il narratore in prima persona: un ragazzo anticonformista e “ribelle al dolore” [13], che sta cercando la propria identità tentando di emanciparsi dalla figura paterna, che di lui sembra essenzialmente non curarsi, anche grazie a una vita amorosa carica di passioni (“Ciò che mi tormentava era il digiuno inflitto ai sensi” [14]). La protagonista femminile, Marthe, è invece una giovane sposa che vive il dissidio tra la propria intimità e gli obblighi sociali che la famiglia borghese e il suo ruolo di persona impegnata le attribuiscono. L’amore è incendiario, come può essere tra adolescenti che non hanno ancora esperienza della vita e del mondo, e che attribuiscono alla propria esperienza un senso di assolutezza e di accecante unicità. Il motore primo del romanzo è però non solo il desiderio che lega gli amanti, ma il fatto che continui ‘nonostante tutto’, che sia più forte di tutte le traversie, i pregiudizi o le asperità, fino a diventare un sentimento tracimante per il quale i protagonisti non stanno più nella pelle.
Deformare, levigare, comprimere
La mostra Le diable au corps – ispirata all’omonimo romanzo di Radiguet, che ha qui il ruolo di aggregatore che definisce un possibile ambito emotivo – indaga le dinamiche del desiderio erotico, dell’irrequietudine del corpo e del superamento dei vincoli imposti dalla società attraverso l’opera pittorica di dodici significativi artisti che praticano la pittura. Il progetto sonda il corpo che desidera e crea desiderio nel suo portato formale, espressivo, psicologico e simbolico, ma anche nelle sue molteplici valenze narrative, sensuali e metamorfiche. Il desiderio dell’Altro è nelle opere di questi artisti un’esplorazione delle differenze individuali, della complessità che si dipana in forme e modalità diverse, sia contrastanti che inaspettatamente amalgamate. Tanto quanto nella storia di Radiguet, in questi lavori pittorici il desiderio è un ‘dispositivo’ che rompe un ordine e che contribuisce ad allargare gli stretti cunicoli che la società ritiene desiderabili e percorribili. È una messa in discussione del sistema, un esplosivo che fa deflagrare degli ingranaggi resistenti e apparentemente oliati. Il desiderio è cioè un elemento di destabilizzazione e messa in discussione dello status quo. E, insieme, un fondamentale impulso finalizzato alla scoperta dell’identità individuale: il desiderio modella la persona in maniera plastica, deforma, accresce, leviga, comprime, scioglie o indurisce.
Come il vento per l’incendio
Il corpo è il protagonista di questa tensione che la pittura registra come un sismografo facendone linguaggio e materia. È un corpo che è insieme soggetto desiderante e oggetto desiderato, che si tramuta nello strumento dell’estrosa follia di Eros che ‘vuole’ sopra ogni cosa, quando sente una fastidiosa mancanza o avverte un bisogno capriccioso che lo solletica irresistibilmente, senza prestare attenzione agli effetti indesiderati. E allo stesso tempo il corpo, nella sua fisicità e nella capacità di generare immagini, è un inesauribile istigatore di sogni, di voglie conturbanti e di tensioni alle quali si è poi costretti far fronte. Forze che si palesano nella loro sanguigna vitalità senza sottomettersi alle consuetudini, ai ruoli, alle aspettative della maggioranza, quando non ostinatamente controcorrente. L’ansia del cuore che batte più forte e l’aspettativa dell’amore carnale generano sottopelle delle insopprimibili pressioni sotterrane, le quali si rendono manifeste – come i movimenti tellurici – solo negli strappi e nelle rotture. Il desiderio rappresenta l’ipocentro, ossia il punto intimo in cui le tensioni sfociano in una rottura; il corpo è invece l’epicentro esterno, nel quale la frattura si manifesta con la massima forza possibile. Il desiderio si alimenta dalla libertà, che, come racconta il protagonista di Le diable au corps, diventa rapidamente “una droga” [15] per una persona che desidera. La libertà, infatti, è come il vento per l’incendio: fornisce al fuoco il comburente per continuare ad ardere in maniera incessante.
Il fuoco e la spuma del mare
La pittura brucia, perché parla di desiderio, ne è in parte frutto, lo innesca, ne suggerisce le possibili varianti o le successive evoluzioni. Nei miei occhi e nei tuoi occhi curiosi di vedere, la pittura s’infiamma e tiene vivi gli sguardi. Brucia nel disegno nervoso e nell’aggrumarsi della materia e del colore. Scotta nel silenzio della nudità che interroga l’osservatore. Avvampa nella penombra di una stanza raccolta che ospita delle intime immagini che urticano gli occhi [16]. E non smette di ustionare. Nella liberatoria intimità delle opere di Romina Bassu e nella delicata provocazione della pelle che appena si sfiora di Adelisa Selimbašić. Nella dolce malinconia dei ragazzi ritratti da Giulio Catelli e negli abbracci degli amanti prima di lasciarsi per sempre di Olga Lepri. Nei dettagli erotici che profumano di fiori di Paolo Pretolani e nei riti amorosi collettivi che guardano a Oriente di Sabrina Annaloro. Nelle mani smaniose di toccarsi di Flaminia Veronesi e nell’imperturbabile distanza delle icone di Davide Serpetti. Negli uomini soli e sospesi di Nicolò Bruno e negli sguardi tormentati e intimamente inquieti delle persone di Nebojša Despotović. Nell’incontenibile giustapposizione di micronarrazioni di Chiara Calore e nella carne straripante e orgiastica di Maria Giovanna Zanella. Deflagra, la pittura, nella figura umana che si rivela vivida ed eccitata come la spuma del mare da cui Afrodite nasce.
[1] J.P. Sartre, L’essere e il nulla, Il saggiatore, Milano, 2008, p. 453.
[2] J.P. Sartre, cit., p. 422.
[3] J. Lacan, “Soggetto e desiderio nell’inconscio freudiano”, in Scritti, Einaudi, Torino, 1974 e 2002, vol. II, p. 817.
[4] M. Cortelazzo, P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, Zanichelli, Bologna, 1999.
[5] Platone, Simposio, XXIII, Marsilio, Venezia, 2006, ebook.
[6] R.M. Rilke, I sonetti a Orfeo, trad. F. Rella, Feltrinelli, Milano, 1991, p. 95.
[7] J.L. Nancy, Corpus, Cronopio, Napoli, 1995, p. 96.
[8] J.L. Nancy, “L’immagine: mimesis e methexis”, in A.V., Ai limiti dell’immagine, a cura di C.C. Härle, Quodlibet, Macerata 2005, p. 16.
[9] Ibidem.
[10] J.L. Nancy, La pelle delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino, 2023, p. 21.
[11] S.T. Coleridge, La ballata del vecchio marinaio, vv. 3-16.
[12] R. Radiguet, Le diable au corps, Bernard Grasset, Parigi, 1923.
[13] R. Radiguet, Il diavolo in corpo, Feltrinelli, Milano, 2005, p. 132.
[14] Ivi, p. 68.
[15] Ivi, p. 34.
[16] La sezione conclusiva della mostra Le diable au corps, allestita negli spazi di BonelliLAB a Canneto sull’Oglio, presenta una dozzina di opere su carta di piccole dimensioni collocate in una dark room cui si accede da una tenda. La stanza è illuminata da una luce flebile che costringe il visitatore a rallentare e vedere le opere da vicino, in una situazione amniotica caratterizzata dall’intimità.
Daniele Capra
Guardo, tocco, desidero
Vista e tatto, tra tutti i nostri sensi, incarnano delle modalità di relazione con il mondo del tutto antitetiche. In particolare, gli occhi sono l’organo della distanza e la pelle quello della prossimità. L’occhio produce immagini che abbisognano di essere decodificate ed elaborate perché sono proiezioni di qualcosa che è necessariamente ‘altro e altrove’, dato che, per questioni ottiche, risulta impossibile vedere un oggetto collocato vicino al globo oculare (mentre per esempio posso avvertire un odore sia a distanza che a contatto con il naso). È un organo che agisce cioè in forma centrifuga ed espansiva, mi avverte e informa della molteplicità, e contribuisce a rompere il mio isolamento avvisandomi in questo modo di non essere l’unica entità esistente al mondo (o in quel ritaglio in cui sto vivendo). La pelle, al contrario, sente direttamente su di sé, attraverso il contatto e la pressione, qualcosa che è ‘io e qui’. Agisce in forma centripeta, registrando attraverso la presenza dell’altro il mio esistere. Conferma quindi il mio volume in quel momento, mi dice che sono corpo, e che, come scrive Jean-Paul Sartre, “esisto il mio corpo” e “il mio corpo è utilizzato e conosciuto da altri”. Inoltre, in maniera reciproca, “in quanto io sono per altri, altri mi si manifesta come il soggetto per il quale io sono oggetto”[1]. Vista e tatto convalidano infatti la mia esistenza all’interno di un sistema di relazioni in cui abito il mio corpo, che a sua volta abita il mondo. In particolare, “il corpo è anche necessario come l’ostacolo da superare per essere nel mondo, cioè l’ostacolo che io sono a me stesso”[2]. Io, per essere un ente senziente (cioè per esistere nella compiutezza di una relazione con il mondo che conosco coi sensi), ho bisogno di avere un corpo: la sua esistenza mi identifica come ‘soggetto’, come persona, e mi rende altresì ‘oggetto’ all’altro. E senza il corpo, senza la pelle che lo contiene e la vista che permette al mondo di farsi avvertire, dato che il mondo bussa alla nostra porta attraverso la vista, non ci sarebbe alcuna possibilità di desiderare.
Mancanza e distanza sotto le stelle
Presupposto del desiderio è percepire la propria identità soggettiva, il senso di mancanza o d’incompiutezza, la distanza e la diversità. Se infatti “il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro”[3], esso è originato dall’incomprimibile necessità di proiettarsi al di fuori, oltre al comodo e confortevole perimetro del sé. La parola ‘desiderio’ deriva dal latino ‘de-siderare’, col probabile significato di “cessare di contemplare le stelle a scopo augurale” [4] (osservare il cielo a scopo divinatorio era in antichità una pratica consuetudinaria), indicando lo spostamento di attenzione verso qualcosa di visivamente più vicino. La voce è composta da sidus, -eris, che significa ‘stella’ o ‘astro’, ed è preceduta dal suffisso de, che potrebbe invece indicare lontananza o provenienza. L’etimologia, che non è univoca, nasconde così due sensi contraddittori/complementari: il primo è anelare qualcosa che è distante dalle stelle, quindi fortemente terreno e vicino alla nostra condizione di uomini; il secondo è bramare qualcosa che dalle stelle è originato e proviene nella mia direzione. In entrambi i casi il desiderio si materializza come un appetito inappagato, come una sazietà che ancora non si manifesta tenendomi in scacco, come un’identità che non riesce a bastare a se stessa. Il desiderio è infatti la registrazione di un’incompiutezza, la testimonianza di un’assenza che ci si auspica di colmare.
Il figlio della mancanza e dell’ingegno
‘Eros’ in greco indica sia la divinità che lo stesso desiderio. Eros, come Platone fa dire a Socrate nel Simposio, è figlio di Penia e Poros. La prima rappresenta la mancanza, la miseria, mentre il secondo è la personificazione dell’ingegno e del desiderio di conoscenza. Eros per sua natura ha così sempre bisogno di ricercare qualcosa che ancora non possiede, e ‘incarna’ cioè il desiderio. È “povero e tutt’altro che delicato e bello, come i più se lo figurano; anzi è grossolano, mezzo selvatico, sempre scalzo, vagabondo, dorme sempre per terra, allo scoperto, davanti agli usci e nelle strade, sotto il sereno, perché ha la natura della madre ed è tutt’uno con la miseria. Per parte del padre, invece, è fatto per insidiare ciò che è bello e buono, essendo di natura virile, audace, violento, gran cacciatore, sempre pronto a tramare inganni, amico del sapere, ricco di espedienti, tutta la vita dedito a filosofare”
[5]. Il desiderio, nel dialogo platonico, scaturisce psichicamente come tentativo di porre argine a una condizione di insufficienza; e poi diventa ben di più: tentativo, prova, strategia ardimentosa. È uno stimolo che si propaga, che diventa una sorgente che esprime il soggetto desiderante e bagna il terreno che ne è toccato. E inevitabilmente, come osservava Rainer Maria Rilke, “chi si effonde come fonte viene conosciuto dalla conoscenza” [6]. Il desiderio, infatti, è anche uno strumento che attiva l’interesse per ciò che non si conosce, un dispositivo che innesca necessariamente il superamento dello status quo alla ricerca del piacere corporeo e insieme interiore.
Corpo, godimento e confine
Sfioramenti, carezze, graffi, soffi, sfregamenti, baci, morsi, suzioni, titillamenti, pressioni, massaggi, solletico: il corpo trova piacere nel toccare e nell’essere toccato. Come scrive Jean-Luc Nancy, “gode a essere premuto, pesato, pensato dagli altri corpi e gode nell’essere quello che preme e pesa e pensa gli altri corpi. I corpi godono e sono goduti dai corpi. […] Il corpo goduto si estende in tutti i sensi, rendendo sensato tutto e niente al tempo stesso. Il corpo goduto è come il puro segno-di-sé, ma non è né segno né sé. Il godere stesso è un corpus di zone, di masse, spessori estesi, areole offerte, tatto moltiplicato e diviso” [7]. La pelle avverte e registra la fisicità del contatto, l’intensità del confronto tra le superfici, il reciproco adeguarsi delle due parti che si toccano. Per trovare il proprio piacere il corpo deve nutrirsi della presenza tattile e ponderale dell’Altro. Il sé-corpo esiste nella continua negoziazione con la presenza dell’Altro, gode della condivisione della propria materia e dell’essere confine che subisce o causa arretramenti e sconfinamenti.
Desiderio e immagine
Non vediamo corpi, ma immagini di corpi che mostrano il proprio perimetro, il proprio confine. Immagini che i miei occhi trasmettono in uno spazio dentro di me che provvede – in base alle mie esperienze, alla mia cultura, alle mie inclinazioni, alle mie fobie o ai miei amori – a ordinare, fissare nella memoria, trattenere. Il nostro desiderio è un archivio attivo di immagini (e di sensazioni) nel quale molte di quelle che ci creano piacere mancano, o sono ancora troppo scarse. Penia è in agguato: è la mancanza a spingerci a rompere gli indugi, ad allarmare Poros che sta vegliando. Infatti, come scrive Jean-Luc Nancy, “il desiderio presuppone il suo piacere” [8]. Non può attendere infinitamente, non può essere continuamente soddisfatto, altrimenti cessa. Il desiderio è infatti l’aspettativa di un piacere, l’attesa preventiva di un’immagine di piacere e, probabilmente, “potremmo dire che ciò che chiamiamo ‘immagine’ è ciò con cui entriamo in un rapporto di piacere” [9]. Il desiderio stesso, reso ‘immagine’, può essere “soggetto od oggetto della rappresentazione, ma anche l’uno e l’altro contemporaneamente. Il desiderio è soggetto quando il quadro mostra sia ciò che un soggetto desidera, sia il suo desiderio (che questo soggetto sia il pittore o lo spettatore, fa tutt’uno), mentre è oggetto quando mostra il desiderio all’opera” [10].
Trattenuti dal vecchio marinaio
L’immagine è fonte per chi guarda ed è foce per chi la realizza. Infatti l’osservatore sente l’acqua di risorgiva che gorgoglia, mentre l’artista avverte il liquido intenso e inesorabile riversarsi dell’immagine nel mondo. Per chi guarda, l’immagine è una domanda cui rispondere, per chi la mette al mondo è una domanda posta al mondo. Proprio per questa funzione interrogativa le immagini abbisognano di qualcuno che presti attenzione al loro esistere, che si faccia fermare e ascolti la loro voce, a volte volontariamente, a volte per la loro impertinente personalità, come il Vecchio Marinaio fa con il giovane invitato a nozze ne La ballata del vecchio marinaio [11]. Nella poesia di Samuel Taylor Coleridge il barbuto uomo di mare ferma casualmente il giovane uomo e lo trattiene con il proprio sguardo magico. Lo immobilizza ad ascoltare il suo racconto, annullando il desiderio di andarsene che il ragazzo aveva manifestato, grazie al suo occhio scintillante e incantatore. Quella tensione magnetica è la stessa che alcune immagini possiedono, grazie alla quale ci trattengono costringendoci a prestare loro attenzione in una condizione di stasi contemplativa, per la quale risulta impossibile volgere la nostra attenzione altrove. Le immagini significative, infatti, sono allo stesso tempo un fardello e una delizia: ‘imprigionano’ chi le guarda, e non smettono di rivolgere quelle domande cui non è mai possibile rispondere in maniera esaustiva.
Non vedi l’aura?
Le immagini di per sé possono essere fonte di desiderio erotico, quando mostrano un corpo, un suo dettaglio, delle particolari situazioni o un oggetto che al corpo allude. Il nudo non è necessariamente un soggetto erotico, benché spesso gli artisti sappiano costruire delle situazioni complesse in cui i limiti siano molto più confusi e i margini indefinibili: per esempio il pudico candore o la dolcezza di un abbraccio possono generare nell’osservatore la lascivia più sfrenata; oppure il mostrare il piacere del soggetto rappresentato può innescare il desiderio di riprovare quello stesso piacere – da noi conosciuto – che vediamo nel corpo degli altri. Il corpo nudo offerto a chi guarda rappresenta però una difformità rispetto alla nostra condizione ordinaria, in cui viviamo ricoperti dagli indumenti. Per quanto le immagini di nudità siano state ampiamente sdoganate negli scorsi decenni al punto da esserne invasi, l’immagine pittorica che mostra la nudità possiede un vantaggio. È ‘atipica’, aspetto che in qualche modo le consente di sfuggire alla banalità delle altre immagini che popolano il mondo: per il fatto di possedere una dimensione fisica, cioè un ingombro immodificabile; per la sua unicità materiale; per il fatto di essere il precipitato irripetibile delle azioni messe in atto dallo stesso artista. Ma l’aura delle opere è davvero del tutto svanita?
Nonostante tutto, il desiderio
Il romanzo breve di Raymond Radiguet Le diable au corps [12] narra di una relazione proibita nel corso della Prima guerra mondiale fra due giovanissimi amanti, uno svogliato studente liceale e una donna sposata, moglie di un soldato in guerra. Con una prosa nervosa e carica di vivide immagini, Radiguet racconta la storia di un amore travolgente all’epoca ritenuto inaccettabile (si scoprì solo dopo la sua morte, avvenuta a soli vent’anni lo stesso anno della pubblicazione del libro, che le vicende raccontate sono in parte autobiografiche). Il protagonista maschile, di cui non sappiamo il nome, è il narratore in prima persona: un ragazzo anticonformista e “ribelle al dolore” [13], che sta cercando la propria identità tentando di emanciparsi dalla figura paterna, che di lui sembra essenzialmente non curarsi, anche grazie a una vita amorosa carica di passioni (“Ciò che mi tormentava era il digiuno inflitto ai sensi” [14]). La protagonista femminile, Marthe, è invece una giovane sposa che vive il dissidio tra la propria intimità e gli obblighi sociali che la famiglia borghese e il suo ruolo di persona impegnata le attribuiscono. L’amore è incendiario, come può essere tra adolescenti che non hanno ancora esperienza della vita e del mondo, e che attribuiscono alla propria esperienza un senso di assolutezza e di accecante unicità. Il motore primo del romanzo è però non solo il desiderio che lega gli amanti, ma il fatto che continui ‘nonostante tutto’, che sia più forte di tutte le traversie, i pregiudizi o le asperità, fino a diventare un sentimento tracimante per il quale i protagonisti non stanno più nella pelle.
Deformare, levigare, comprimere
La mostra Le diable au corps – ispirata all’omonimo romanzo di Radiguet, che ha qui il ruolo di aggregatore che definisce un possibile ambito emotivo – indaga le dinamiche del desiderio erotico, dell’irrequietudine del corpo e del superamento dei vincoli imposti dalla società attraverso l’opera pittorica di dodici significativi artisti che praticano la pittura. Il progetto sonda il corpo che desidera e crea desiderio nel suo portato formale, espressivo, psicologico e simbolico, ma anche nelle sue molteplici valenze narrative, sensuali e metamorfiche. Il desiderio dell’Altro è nelle opere di questi artisti un’esplorazione delle differenze individuali, della complessità che si dipana in forme e modalità diverse, sia contrastanti che inaspettatamente amalgamate. Tanto quanto nella storia di Radiguet, in questi lavori pittorici il desiderio è un ‘dispositivo’ che rompe un ordine e che contribuisce ad allargare gli stretti cunicoli che la società ritiene desiderabili e percorribili. È una messa in discussione del sistema, un esplosivo che fa deflagrare degli ingranaggi resistenti e apparentemente oliati. Il desiderio è cioè un elemento di destabilizzazione e messa in discussione dello status quo. E, insieme, un fondamentale impulso finalizzato alla scoperta dell’identità individuale: il desiderio modella la persona in maniera plastica, deforma, accresce, leviga, comprime, scioglie o indurisce.
Come il vento per l’incendio
Il corpo è il protagonista di questa tensione che la pittura registra come un sismografo facendone linguaggio e materia. È un corpo che è insieme soggetto desiderante e oggetto desiderato, che si tramuta nello strumento dell’estrosa follia di Eros che ‘vuole’ sopra ogni cosa, quando sente una fastidiosa mancanza o avverte un bisogno capriccioso che lo solletica irresistibilmente, senza prestare attenzione agli effetti indesiderati. E allo stesso tempo il corpo, nella sua fisicità e nella capacità di generare immagini, è un inesauribile istigatore di sogni, di voglie conturbanti e di tensioni alle quali si è poi costretti far fronte. Forze che si palesano nella loro sanguigna vitalità senza sottomettersi alle consuetudini, ai ruoli, alle aspettative della maggioranza, quando non ostinatamente controcorrente. L’ansia del cuore che batte più forte e l’aspettativa dell’amore carnale generano sottopelle delle insopprimibili pressioni sotterrane, le quali si rendono manifeste – come i movimenti tellurici – solo negli strappi e nelle rotture. Il desiderio rappresenta l’ipocentro, ossia il punto intimo in cui le tensioni sfociano in una rottura; il corpo è invece l’epicentro esterno, nel quale la frattura si manifesta con la massima forza possibile. Il desiderio si alimenta dalla libertà, che, come racconta il protagonista di Le diable au corps, diventa rapidamente “una droga” [15] per una persona che desidera. La libertà, infatti, è come il vento per l’incendio: fornisce al fuoco il comburente per continuare ad ardere in maniera incessante.
Il fuoco e la spuma del mare
La pittura brucia, perché parla di desiderio, ne è in parte frutto, lo innesca, ne suggerisce le possibili varianti o le successive evoluzioni. Nei miei occhi e nei tuoi occhi curiosi di vedere, la pittura s’infiamma e tiene vivi gli sguardi. Brucia nel disegno nervoso e nell’aggrumarsi della materia e del colore. Scotta nel silenzio della nudità che interroga l’osservatore. Avvampa nella penombra di una stanza raccolta che ospita delle intime immagini che urticano gli occhi [16]. E non smette di ustionare. Nella liberatoria intimità delle opere di Romina Bassu e nella delicata provocazione della pelle che appena si sfiora di Adelisa Selimbašić. Nella dolce malinconia dei ragazzi ritratti da Giulio Catelli e negli abbracci degli amanti prima di lasciarsi per sempre di Olga Lepri. Nei dettagli erotici che profumano di fiori di Paolo Pretolani e nei riti amorosi collettivi che guardano a Oriente di Sabrina Annaloro. Nelle mani smaniose di toccarsi di Flaminia Veronesi e nell’imperturbabile distanza delle icone di Davide Serpetti. Negli uomini soli e sospesi di Nicolò Bruno e negli sguardi tormentati e intimamente inquieti delle persone di Nebojša Despotović. Nell’incontenibile giustapposizione di micronarrazioni di Chiara Calore e nella carne straripante e orgiastica di Maria Giovanna Zanella. Deflagra, la pittura, nella figura umana che si rivela vivida ed eccitata come la spuma del mare da cui Afrodite nasce.
[1] J.P. Sartre, L’essere e il nulla, Il saggiatore, Milano, 2008, p. 453.
[2] J.P. Sartre, cit., p. 422.
[3] J. Lacan, “Soggetto e desiderio nell’inconscio freudiano”, in Scritti, Einaudi, Torino, 1974 e 2002, vol. II, p. 817.
[4] M. Cortelazzo, P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, Zanichelli, Bologna, 1999.
[5] Platone, Simposio, XXIII, Marsilio, Venezia, 2006, ebook.
[6] R.M. Rilke, I sonetti a Orfeo, trad. F. Rella, Feltrinelli, Milano, 1991, p. 95.
[7] J.L. Nancy, Corpus, Cronopio, Napoli, 1995, p. 96.
[8] J.L. Nancy, “L’immagine: mimesis e methexis”, in A.V., Ai limiti dell’immagine, a cura di C.C. Härle, Quodlibet, Macerata 2005, p. 16.
[9] Ibidem.
[10] J.L. Nancy, La pelle delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino, 2023, p. 21.
[11] S.T. Coleridge, La ballata del vecchio marinaio, vv. 3-16.
[12] R. Radiguet, Le diable au corps, Bernard Grasset, Parigi, 1923.
[13] R. Radiguet, Il diavolo in corpo, Feltrinelli, Milano, 2005, p. 132.
[14] Ivi, p. 68.
[15] Ivi, p. 34.
[16] La sezione conclusiva della mostra Le diable au corps, allestita negli spazi di BonelliLAB a Canneto sull’Oglio, presenta una dozzina di opere su carta di piccole dimensioni collocate in una dark room cui si accede da una tenda. La stanza è illuminata da una luce flebile che costringe il visitatore a rallentare e vedere le opere da vicino, in una situazione amniotica caratterizzata dall’intimità.
Gli artisti
Daniele Capra & Massimo Mattioli
Sabrina Annaloro
È la temperatura cromatica che enfatizza temperie orientali su un sostrato orgogliosamente siciliano a far da scenario alle strutturate partiture pittoriche di Sabrina Annaloro. Letterari senza essere narrativi, i suoi dipinti trovano la propria unicità nel dare forma plastica alle incertezze e agli interrogativi esistenziali dell’artista. Identità di genere, confronto con la storia, relazione fluida con gli altri esseri viventi del creato: nel dipanare temi di pregnanza universale, l’artista si inserisce in flussi di pensieri che dalle preziosità persiane transitano per il gotico, per la metafisica pierfrancescana, per gli shock logici fiamminghi, fino ad approdare al violento realismo di Frida Kahlo. La sua sintesi non può che approdare a una verità metamorfica, che inchioda l’osservatore a un granitico ma comunque fervido relativismo storico-culturale.
Sono allucinazioni pittoriche che nell’assenza di un centro gravitazionale diventano spiazzanti sceneggiature per inedite crasi. Che in Fou rire paiono cercare una sintesi nell’unione di Leda con il Cigno, in un contesto di allucinazione boschiana enfatizzata da suggestioni architettoniche che mixano cupole arabe, merlature moresche, prospettive giottesche e particolari ellenistici. In Petit mort la trasversalità si declina maggiormente nel vivido panismo, mentre nel piccolo e prezioso Diavolesse le protagoniste rivendicano bellamente la propria libertà al cospetto di una giudicante iconostasi.
Romina Bassu
La pratica pittorica di Romina Bassu nasce da un’analisi degli stereotipi della rappresentazione delle donne – diffusi nella società di massa a partire dal secondo dopoguerra – condotta con l’ottica della critica femminista. Nelle sue opere il corpo, la postura, l’abbigliamento e il comportamento dei soggetti rappresentati (giovani donne) soggiacciono infatti ai vincoli imposti dallo ‘sguardo maschile’, che viene inscenato teatralmente sulla tela e successivamente destrutturato criticamente, evidenziandone la subdola permeabilità anche negli aspetti più intimi della vita femminile. Le donne dipinte da Bassu sono sole e impossibilitate a essere ‘soggetto’, prigioniere di occhi, desideri e proiezioni maschili da cui sono standardizzate. Sono invece ‘oggetto’, icone – talvolta irriverenti o più spesso algide – che paiono svuotate, slegate interiormente dalla propria personale esistenza.
I tre dipinti Aderenza, La ricerca e Plateau raccontano dei momenti di piacere di una donna nella solitudine: un gioco erotico innescato da uno specchio, la ricerca del piacere con la propria mano e il perdersi in un orgasmo. La protagonista è raffigurata in un ambiente neutro e scarno, con un’illuminazione fortemente cinematografica che evidenzia il morbido incarnato. I dipinti sono dotati di una spiccata capacità narrativa che spinge l’osservatore a immaginare il prima e il dopo della scena, nel tentativo di ricostruire le vicende rispetto alle quali l’artista resta acutamente in silenzio.
Nicolò Bruno
“Più perseguo il mio lavoro, più mi trovo ad associarlo a una prassi identificativa”. Tanto profondo è lo scavo psicologico nei ritratti di Nicolò Bruno, che i suoi dipinti diventano una lunga serie di selfie, anche se non è lui ad essere raffigurato. Il suo pennello traccia quasi solo figure umane, quasi solo figure di uomini, pienamente realizzati in una normalità casalinga in parte figlia della reclusione pandemica, ma poi adottata come cifra identitaria. Un’articolata elegia della semplicità, con soggetti che rifiutano qualsiasi indugio all’esteriorità, per sottoporsi allo sguardo del pittore, radiografia dell’intimità. Nessuna attività, nessuna frenesia vitale, un’inquietante sospensione che rimarca il beato isolamento.
Paradigmatico in tal senso è Monumento alla notte, con la scelta della doppia tela sovrapposta che struttura anche plasticamente le stratificazioni del pensiero davanti a un penetrante sguardo, o, meglio, a uno specchio. Restano sovente reminiscenze della fonte fotografica del soggetto, nei viraggi di certe gamme cromatiche che avvicinano alcuni dipinti a errori di stampa, come nel caso di Do you?. Esula invece dal ricorrente format Scirocco, dove l’ironica ed esorcizzata contrapposizione maschile/femminile viene rimarcata dalla comparsa di due pipistrelli, che in quanto mammifero/uccello, assumono a simbolo di doppiezza.
Chiara Calore
I dipinti di Chiara Calore brulicano di vita, grazie alla continua invenzione figurativa e al ritmo compositivo incessante. Le sue composizioni sono caratterizzate dalla giustapposizione di elementi dalla più disparata provenienza, che l’artista combina sulla tela con accenti che lambiscono l’ironico, il grottesco, il macabro, l’intimo, l’erotico e il nonsense. In maniera ricorrente l’anatomia dei corpi rappresentati, sia umani che animali, segue logiche in apparenza casuali, in cui elementi realistici si mescolano liberamente a immaginifiche bizzarrie. La sua pittura, spiccatamente narrativa, sembra infatti essere animata dal desiderio di raccontare il difforme, l’improbabile e l’assurdo, nei quali l’osservatore sprofonda in una condizione di incertezza interpretativa.
Pussy Kitty è un abbraccio di due amanti lambiti da due intrusi. Un leopardo dormiente e un inquietante fantasma di una terza persona, appena intuibile dalla presenza di un braccio, fanno compagnia ai concubini, mentre due gatti neri sembrano salutare l’osservatore aggrappati alle tende che delimitano l’alcova. In Arazzo del ca**o l’artista si spinge al parossismo compositivo, per l’estrosità e la ricchezza di elementi che decorano la tela, come in un arazzo barocco. Il soggetto è qui solo un pretesto, in un tripudio di animali, frutti, medaglie e una pletora surreale di piccoli falli giocosi, che costringono l’osservatore a dibattersi tra vista d’insieme e ironica lettura dei dettagli.
Giulio Catelli
“Non si tratta esattamente di scegliere delle immagini, ma di assecondare delle attrazioni e delle sensazioni visive”. Poche parole, con le quali Giulio Catelli delinea i caratteri del suo dipingere. Una super-intima-pittura, opzione cosciente e rivendicata in uno scenario in cui si registra il dominio dell’immagine digitale, la poesia visiva svilita a spot commerciale, l’installazione a ingaggio sociale. Pittura dal vivo che egli spinge alle soglie del possibile, fino ad asciugarla, a seccarla. Per lasciarle raccontare le sue scene immobili, dove qualcosa sta per succedere, ma probabilmente non accadrà mai. Con personaggi pervasi da quella crepuscolare e malinconica inedia, congenita al nichilismo adolescenziale.
Catelli sorprende due ragazzi Sul terrazzo come Filippo de Pisis avrebbe raccontato una scena domestica evocata da Guido Gozzano: poche, puntuali macchie di colore giustapposte, qualche tratto scuro a suggerire profondità. E nessun riguardo al taglio dell’immagine: una gamba può sparire, due piedi possono essere inghiottiti da un muretto, il soggetto significante è il tempo. Quello che osserva scorrere, attonito, Lorenzo alla selva di S. Francesco…
Nebojša Despotović
I dipinti di Nebojša Despotović sono contraddistinti da una forte carica emotiva, poetica e spirituale, frutto di un’intensa esplorazione tematica che l’artista conduce spaziando liberamente dalle vicende interiori personali alla storia dell’arte, dal senso sacro alla memoria collettiva, dal malessere esistenziale alla follia, dall’ineluttabilità del destino alla gioiosa ebrezza di perdere il controllo. I lavori dell’artista presentano in maniera ricorrente un sistema di personaggi disposti in maniera gerarchica: alcune figure sono in evidenza in primo piano, mentre sullo sfondo altre presenze – talvolta spettrali e dalla figurazione ondivaga – contribuiscono a delineare la complessità psicologica della scena e a definire il carattere, i pensieri e i desideri dei protagonisti. Nei suoi dipinti la figura umana ha un ruolo centrale, e svolge una funzione di natura interrogativa nei confronti dell’osservatore, chiamato in prima persona a essere interlocutore di ciò che vede.
I dipinti Jealousy (Wedding in the Countryside), La danza (Temple of Midnight) e Le piume bianche sono caratterizzati da una pittura espressionista che oscilla dalla fluidità al grumo materico, e un segno che si fa talvolta nervoso. Rappresentano delle coppie che paiono tra loro legate da amicizia e intimità. Sono amanti, forse, che palesano il proprio legame, ma anche le speranze e i propri sogni, senza però nascondere all’osservatore – affogati in un blu intenso – gli abissi esistenziali in cui sono immersi.
Olga Lepri
Nata in Russia, formatasi in Belgio per poi approdare in Italia, Olga Lepri ha metabolizzato questi repentini e potenzialmente disorientanti cambiamenti di contesto socio-culturale concentrando il proprio lavoro sulla figura umana nella sua dimensione interiore. Le plastiche composizioni che animano i suoi disegni e le sue pitture trasmettono percepibili e a volte violenti dinamismi: fisici negli studi anatomici del soggetto o nel confronto ‘muscolare’ dei personaggi; mentali, invece, nel coinvolgere suggestioni ambientali, atmosferiche e cromatiche, e nella costruzione di dinamiche sensoriali e psicologiche. Formalmente l’occhio, dopo aver spaziato dai maestri del Rinascimento alle avanguardie storiche, sfocia in una personalissima surrealtà, simbolica e onirica.
Presupposti che trovano piena realizzazione in L’abisso che è in te, dove la decisa contrapposizione tra il luminoso sfondo e la fiammeggiante e infernale base spinge le due figure in un salvifico, sensuale intreccio di membra: una foscoliana, lirica e celeste “corrispondenza di amorosi sensi”, che ritorna anche nel torrido Rosso e nero. L’opposizione uomo/natura trova invece ampia declinazione in un lavoro dal sapore ecumenico e psichedelico come Pangea.
Paolo Pretolani
La pittura di Paolo Pretolani è caratterizzata da una fascinazione per il mondo animale e vegetale, di cui l’artista evidenzia con un forte elemento surreale la varietà, l’irrefrenabile vitalità, le inaspettate stranezze o la forte tensione erotica. I suoi dipinti sono contraddistinti dalla presenza di un disegno lineare asciutto e innervato, e da un colore che spesso è sulla soglia del visibile o percepibile nella sua pienezza grazie all’uso della lampada di Wood. Tale aspetto spinge l’osservatore a rallentare lo sguardo alla ricerca dei dettagli sulla superficie, e la prima esplorazione del dipinto raramente comporta il suo completo svelarsi. C’è sempre qualcosa che sfugge, che necessita di tempo ulteriore per essere visto o decodificato.
La serie The Flower of Carnage nasce da una fascinazione per il disegno orientale, di cui l’artista riprende stile e soggetti. I tre dipinti mostrano dei dettagli di scene erotiche, a dimensione maggiore del reale, aspetto che li rende a prima vista quasi incomprensibili. Albicocca è invece un articolato dipinto-disegno su tessuto, in cui una scena orgiastica viene narrata attraverso un filo narrativo che si distribuisce sulla superficie liberamente e con una ricercata e sottile casualità.
Adelisa Selimbašić
La fisicità e il corpo delle donne, il superamento dei modelli di bellezza dominanti e la gioiosa accettazione di sé sono i temi che alimentano la ricerca di Adelisa Selimbašić. L’artista rappresenta sulla tela corpi femminili ‘qualunque’, non piegati cioè ai paradigmi della moda, dello spettacolo o alla muscolare fisicità esibita sui social network. Sono fuori scala, spesso ingranditi a dismisura rispetto alla dimensione reale, con un disegno pulito e lineare, colori tersi e ombre semplificate appena accennate. Le persone rappresentate, che entrano in relazione tra loro toccandosi, sono ‘generiche’ e non presentano elementi fisiognomici che ne consentano la riconoscibilità. Quest’aspetto consente all’osservatore di identificarsi e di percepire la scena in una condizione di atemporalità. I corpi non sono mai mostrati nella loro interezza ma come ‘ritaglio’, attraverso inquadrature dal sapore cinematografico. Focalizzandosi su particolari l’artista libera chi guarda dalla lettura complessiva della scena, stimolandolo a ricostruire il contesto entro cui quei microeventi accadono: il dettaglio, nei dipinti di Selimbašić, è essenzialmente un innesco di una possibile narrazione.
Mi piaci come la pannacotta, Ventaglio e Ti vedo sono tre dipinti ‘fotogrammi’ (che ricordano nelle inquadrature Domenico Gnoli) nei quali alcune donne si sistemano il vestito, si abbracciano e si salutano. I dipinti sono un inno alla libertà di comportamento, alla gioia di vivere in relazione con l’altro, spingendo l’osservatore a immaginare un possibile felice esito erotico.
Davide Serpetti
La pratica di Davide Serpetti è contraddistinta da una figurazione asciutta, da un disegno lineare e da una spiccata verve coloristica. La sua pittura, sintetica e dal sapore grafico, risente dei modi del Surrealismo, del Pop degli anni Sessanta e della Transavanguardia. Nelle sue composizioni i soggetti principali sono spesso definiti da un profilo netto e contrastato che li isola visivamente e concettualmente dallo sfondo in maniera gerarchica, contribuendo a farli percepire in forma iconica. Sono ricorrenti, nei sui dipinti, gli accostamenti cromatici stridenti e le zone di colore antinaturalistiche, che corrispondono a logiche ed effetti di natura bidimensionale.
Sleeper è un volto di donna dormiente – una modella o forse un’attrice – che pare avvolto da un velo che ne cela in parte gli occhi. Ricorda la testa di una statua antica protetta da un telo contro la polvere, ma i canoni estetici sono quelli della nostra contemporaneità. Bella e A Gothic Romance rappresentano rispettivamente una ragazza dai lunghi capelli neri e un abbraccio tra due amanti in un contesto ambientale appena accennato, che l’artista ha impiegato frequentemente. Ispirate al film Povere creature!, le due composizioni mostrano la fascinazione dell’artista nei confronti di Andy Warhol, ma anche del mondo dei media e della comunicazione.
Flaminia Veronesi
La joie de vivre. È il refrain identitario di Henri Matisse – titolo di un suo celebre dipinto divenuto poi norma di vita – la miglior chiave per entrare nell’universo creativo di Flaminia Veronesi. Per ragioni formali: l’opzione per colori innaturali, le larghe campiture contrastanti, gli spessi contorni a definire le forme. Ma soprattutto per questioni emotive: tali sono la vitalità e l’energia che sprigionano dalle opere della giovane artista. “L’arte per me è scienza poetica che interroga il mondo attraverso la meraviglia”, dice lei stessa. E i suoi dipinti, come le sue sculture, prospettano un continuo capovolgimento dell’esistente: esseri marini che si umanizzano, crostacei danzanti, donne ibridate a felini. Il dimorfismo eletto a nuova linea evolutiva, sul filo del visionario, dell’assurdo e dello stupefacente.
Forma e colore sono gli elementi costruttivi del racconto del corpo umano e della sua grammatica tattile. Gli azzurri e i rossi giocano sensualmente a fondersi e confondersi. Un naso prova a evolvere in organo sessuale, per penetrare una suadente bocca. Le Mani ballerine scimmiottano la coreografia di due polpi in un danzante e pudico ricercarsi, abbandonando poi del tutto l’infingimento in Mani nude.
Maria Giovanna Zanella
Un po’ Goya, un po’ Soutine. Un occhio a Burri, uno a Nitsch. Carne e sangue, desiderio ed eccitazione. Una pittura selvaggia, liquida e grassa insieme, figurativa, ma scevra da qualsiasi tentazione realista, è quella praticata da Maria Giovanna Zanella. I lavori dell’artista – quasi esclusivamente su carta e realizzati in serie – rendono con forza primitiva e colori ulceranti gli atti sessuali di corpi maschili avvinghiati senza limite: è un susseguirsi senza soluzione di continuità di uomini corpulenti, spesso grassi, in posizioni scomposte e precarie, mostrati mentre si perdono nell’abisso del piacere. Il suo largo pennello attinge a una materia bituminosa che restituisce in maniera densa il sangue rappreso mescolato alla polvere, al sudore, ai liquidi organici dispersi dagli stessi corpi che si amano senza limite. Le inquadrature indugiano sui particolari, l’anatomia è urlata e il suo gesto è sintetico, spigoloso e potente, come una lapidaria frase di Bukowski.
Le opere come Me Kong o Copridito e la serie Senza titolo restituiscono così un mondo erotico in cui l’orgia dei corpi è alimentata dal profluvio cromatico, da una nervosa combinazione di pennellate contrastanti, con vividi colori primari e sferzanti tinte brune al limite del visibile. Un mondo travolgente e dissoluto, in cui l’incontenibile piacere lambisce voyeuristicamente anche l’osservatore più distaccato.
Daniele Capra & Massimo Mattioli
Sabrina Annaloro
È la temperatura cromatica che enfatizza temperie orientali su un sostrato orgogliosamente siciliano a far da scenario alle strutturate partiture pittoriche di Sabrina Annaloro. Letterari senza essere narrativi, i suoi dipinti trovano la propria unicità nel dare forma plastica alle incertezze e agli interrogativi esistenziali dell’artista. Identità di genere, confronto con la storia, relazione fluida con gli altri esseri viventi del creato: nel dipanare temi di pregnanza universale, l’artista si inserisce in flussi di pensieri che dalle preziosità persiane transitano per il gotico, per la metafisica pierfrancescana, per gli shock logici fiamminghi, fino ad approdare al violento realismo di Frida Kahlo. La sua sintesi non può che approdare a una verità metamorfica, che inchioda l’osservatore a un granitico ma comunque fervido relativismo storico-culturale.
Sono allucinazioni pittoriche che nell’assenza di un centro gravitazionale diventano spiazzanti sceneggiature per inedite crasi. Che in Fou rire paiono cercare una sintesi nell’unione di Leda con il Cigno, in un contesto di allucinazione boschiana enfatizzata da suggestioni architettoniche che mixano cupole arabe, merlature moresche, prospettive giottesche e particolari ellenistici. In Petit mort la trasversalità si declina maggiormente nel vivido panismo, mentre nel piccolo e prezioso Diavolesse le protagoniste rivendicano bellamente la propria libertà al cospetto di una giudicante iconostasi.
Romina Bassu
La pratica pittorica di Romina Bassu nasce da un’analisi degli stereotipi della rappresentazione delle donne – diffusi nella società di massa a partire dal secondo dopoguerra – condotta con l’ottica della critica femminista. Nelle sue opere il corpo, la postura, l’abbigliamento e il comportamento dei soggetti rappresentati (giovani donne) soggiacciono infatti ai vincoli imposti dallo ‘sguardo maschile’, che viene inscenato teatralmente sulla tela e successivamente destrutturato criticamente, evidenziandone la subdola permeabilità anche negli aspetti più intimi della vita femminile. Le donne dipinte da Bassu sono sole e impossibilitate a essere ‘soggetto’, prigioniere di occhi, desideri e proiezioni maschili da cui sono standardizzate. Sono invece ‘oggetto’, icone – talvolta irriverenti o più spesso algide – che paiono svuotate, slegate interiormente dalla propria personale esistenza.
I tre dipinti Aderenza, La ricerca e Plateau raccontano dei momenti di piacere di una donna nella solitudine: un gioco erotico innescato da uno specchio, la ricerca del piacere con la propria mano e il perdersi in un orgasmo. La protagonista è raffigurata in un ambiente neutro e scarno, con un’illuminazione fortemente cinematografica che evidenzia il morbido incarnato. I dipinti sono dotati di una spiccata capacità narrativa che spinge l’osservatore a immaginare il prima e il dopo della scena, nel tentativo di ricostruire le vicende rispetto alle quali l’artista resta acutamente in silenzio.
Nicolò Bruno
“Più perseguo il mio lavoro, più mi trovo ad associarlo a una prassi identificativa”. Tanto profondo è lo scavo psicologico nei ritratti di Nicolò Bruno, che i suoi dipinti diventano una lunga serie di selfie, anche se non è lui ad essere raffigurato. Il suo pennello traccia quasi solo figure umane, quasi solo figure di uomini, pienamente realizzati in una normalità casalinga in parte figlia della reclusione pandemica, ma poi adottata come cifra identitaria. Un’articolata elegia della semplicità, con soggetti che rifiutano qualsiasi indugio all’esteriorità, per sottoporsi allo sguardo del pittore, radiografia dell’intimità. Nessuna attività, nessuna frenesia vitale, un’inquietante sospensione che rimarca il beato isolamento.
Paradigmatico in tal senso è Monumento alla notte, con la scelta della doppia tela sovrapposta che struttura anche plasticamente le stratificazioni del pensiero davanti a un penetrante sguardo, o, meglio, a uno specchio. Restano sovente reminiscenze della fonte fotografica del soggetto, nei viraggi di certe gamme cromatiche che avvicinano alcuni dipinti a errori di stampa, come nel caso di Do you?. Esula invece dal ricorrente format Scirocco, dove l’ironica ed esorcizzata contrapposizione maschile/femminile viene rimarcata dalla comparsa di due pipistrelli, che in quanto mammifero/uccello, assumono a simbolo di doppiezza.
Chiara Calore
I dipinti di Chiara Calore brulicano di vita, grazie alla continua invenzione figurativa e al ritmo compositivo incessante. Le sue composizioni sono caratterizzate dalla giustapposizione di elementi dalla più disparata provenienza, che l’artista combina sulla tela con accenti che lambiscono l’ironico, il grottesco, il macabro, l’intimo, l’erotico e il nonsense. In maniera ricorrente l’anatomia dei corpi rappresentati, sia umani che animali, segue logiche in apparenza casuali, in cui elementi realistici si mescolano liberamente a immaginifiche bizzarrie. La sua pittura, spiccatamente narrativa, sembra infatti essere animata dal desiderio di raccontare il difforme, l’improbabile e l’assurdo, nei quali l’osservatore sprofonda in una condizione di incertezza interpretativa.
Pussy Kitty è un abbraccio di due amanti lambiti da due intrusi. Un leopardo dormiente e un inquietante fantasma di una terza persona, appena intuibile dalla presenza di un braccio, fanno compagnia ai concubini, mentre due gatti neri sembrano salutare l’osservatore aggrappati alle tende che delimitano l’alcova. In Arazzo del ca**o l’artista si spinge al parossismo compositivo, per l’estrosità e la ricchezza di elementi che decorano la tela, come in un arazzo barocco. Il soggetto è qui solo un pretesto, in un tripudio di animali, frutti, medaglie e una pletora surreale di piccoli falli giocosi, che costringono l’osservatore a dibattersi tra vista d’insieme e ironica lettura dei dettagli.
Giulio Catelli
“Non si tratta esattamente di scegliere delle immagini, ma di assecondare delle attrazioni e delle sensazioni visive”. Poche parole, con le quali Giulio Catelli delinea i caratteri del suo dipingere. Una super-intima-pittura, opzione cosciente e rivendicata in uno scenario in cui si registra il dominio dell’immagine digitale, la poesia visiva svilita a spot commerciale, l’installazione a ingaggio sociale. Pittura dal vivo che egli spinge alle soglie del possibile, fino ad asciugarla, a seccarla. Per lasciarle raccontare le sue scene immobili, dove qualcosa sta per succedere, ma probabilmente non accadrà mai. Con personaggi pervasi da quella crepuscolare e malinconica inedia, congenita al nichilismo adolescenziale.
Catelli sorprende due ragazzi Sul terrazzo come Filippo de Pisis avrebbe raccontato una scena domestica evocata da Guido Gozzano: poche, puntuali macchie di colore giustapposte, qualche tratto scuro a suggerire profondità. E nessun riguardo al taglio dell’immagine: una gamba può sparire, due piedi possono essere inghiottiti da un muretto, il soggetto significante è il tempo. Quello che osserva scorrere, attonito, Lorenzo alla selva di S. Francesco…
Nebojša Despotović
I dipinti di Nebojša Despotović sono contraddistinti da una forte carica emotiva, poetica e spirituale, frutto di un’intensa esplorazione tematica che l’artista conduce spaziando liberamente dalle vicende interiori personali alla storia dell’arte, dal senso sacro alla memoria collettiva, dal malessere esistenziale alla follia, dall’ineluttabilità del destino alla gioiosa ebrezza di perdere il controllo. I lavori dell’artista presentano in maniera ricorrente un sistema di personaggi disposti in maniera gerarchica: alcune figure sono in evidenza in primo piano, mentre sullo sfondo altre presenze – talvolta spettrali e dalla figurazione ondivaga – contribuiscono a delineare la complessità psicologica della scena e a definire il carattere, i pensieri e i desideri dei protagonisti. Nei suoi dipinti la figura umana ha un ruolo centrale, e svolge una funzione di natura interrogativa nei confronti dell’osservatore, chiamato in prima persona a essere interlocutore di ciò che vede.
I dipinti Jealousy (Wedding in the Countryside), La danza (Temple of Midnight) e Le piume bianche sono caratterizzati da una pittura espressionista che oscilla dalla fluidità al grumo materico, e un segno che si fa talvolta nervoso. Rappresentano delle coppie che paiono tra loro legate da amicizia e intimità. Sono amanti, forse, che palesano il proprio legame, ma anche le speranze e i propri sogni, senza però nascondere all’osservatore – affogati in un blu intenso – gli abissi esistenziali in cui sono immersi.
Olga Lepri
Nata in Russia, formatasi in Belgio per poi approdare in Italia, Olga Lepri ha metabolizzato questi repentini e potenzialmente disorientanti cambiamenti di contesto socio-culturale concentrando il proprio lavoro sulla figura umana nella sua dimensione interiore. Le plastiche composizioni che animano i suoi disegni e le sue pitture trasmettono percepibili e a volte violenti dinamismi: fisici negli studi anatomici del soggetto o nel confronto ‘muscolare’ dei personaggi; mentali, invece, nel coinvolgere suggestioni ambientali, atmosferiche e cromatiche, e nella costruzione di dinamiche sensoriali e psicologiche. Formalmente l’occhio, dopo aver spaziato dai maestri del Rinascimento alle avanguardie storiche, sfocia in una personalissima surrealtà, simbolica e onirica.
Presupposti che trovano piena realizzazione in L’abisso che è in te, dove la decisa contrapposizione tra il luminoso sfondo e la fiammeggiante e infernale base spinge le due figure in un salvifico, sensuale intreccio di membra: una foscoliana, lirica e celeste “corrispondenza di amorosi sensi”, che ritorna anche nel torrido Rosso e nero. L’opposizione uomo/natura trova invece ampia declinazione in un lavoro dal sapore ecumenico e psichedelico come Pangea.
Paolo Pretolani
La pittura di Paolo Pretolani è caratterizzata da una fascinazione per il mondo animale e vegetale, di cui l’artista evidenzia con un forte elemento surreale la varietà, l’irrefrenabile vitalità, le inaspettate stranezze o la forte tensione erotica. I suoi dipinti sono contraddistinti dalla presenza di un disegno lineare asciutto e innervato, e da un colore che spesso è sulla soglia del visibile o percepibile nella sua pienezza grazie all’uso della lampada di Wood. Tale aspetto spinge l’osservatore a rallentare lo sguardo alla ricerca dei dettagli sulla superficie, e la prima esplorazione del dipinto raramente comporta il suo completo svelarsi. C’è sempre qualcosa che sfugge, che necessita di tempo ulteriore per essere visto o decodificato.
La serie The Flower of Carnage nasce da una fascinazione per il disegno orientale, di cui l’artista riprende stile e soggetti. I tre dipinti mostrano dei dettagli di scene erotiche, a dimensione maggiore del reale, aspetto che li rende a prima vista quasi incomprensibili. Albicocca è invece un articolato dipinto-disegno su tessuto, in cui una scena orgiastica viene narrata attraverso un filo narrativo che si distribuisce sulla superficie liberamente e con una ricercata e sottile casualità.
Adelisa Selimbašić
La fisicità e il corpo delle donne, il superamento dei modelli di bellezza dominanti e la gioiosa accettazione di sé sono i temi che alimentano la ricerca di Adelisa Selimbašić. L’artista rappresenta sulla tela corpi femminili ‘qualunque’, non piegati cioè ai paradigmi della moda, dello spettacolo o alla muscolare fisicità esibita sui social network. Sono fuori scala, spesso ingranditi a dismisura rispetto alla dimensione reale, con un disegno pulito e lineare, colori tersi e ombre semplificate appena accennate. Le persone rappresentate, che entrano in relazione tra loro toccandosi, sono ‘generiche’ e non presentano elementi fisiognomici che ne consentano la riconoscibilità. Quest’aspetto consente all’osservatore di identificarsi e di percepire la scena in una condizione di atemporalità. I corpi non sono mai mostrati nella loro interezza ma come ‘ritaglio’, attraverso inquadrature dal sapore cinematografico. Focalizzandosi su particolari l’artista libera chi guarda dalla lettura complessiva della scena, stimolandolo a ricostruire il contesto entro cui quei microeventi accadono: il dettaglio, nei dipinti di Selimbašić, è essenzialmente un innesco di una possibile narrazione.
Mi piaci come la pannacotta, Ventaglio e Ti vedo sono tre dipinti ‘fotogrammi’ (che ricordano nelle inquadrature Domenico Gnoli) nei quali alcune donne si sistemano il vestito, si abbracciano e si salutano. I dipinti sono un inno alla libertà di comportamento, alla gioia di vivere in relazione con l’altro, spingendo l’osservatore a immaginare un possibile felice esito erotico.
Davide Serpetti
La pratica di Davide Serpetti è contraddistinta da una figurazione asciutta, da un disegno lineare e da una spiccata verve coloristica. La sua pittura, sintetica e dal sapore grafico, risente dei modi del Surrealismo, del Pop degli anni Sessanta e della Transavanguardia. Nelle sue composizioni i soggetti principali sono spesso definiti da un profilo netto e contrastato che li isola visivamente e concettualmente dallo sfondo in maniera gerarchica, contribuendo a farli percepire in forma iconica. Sono ricorrenti, nei sui dipinti, gli accostamenti cromatici stridenti e le zone di colore antinaturalistiche, che corrispondono a logiche ed effetti di natura bidimensionale.
Sleeper è un volto di donna dormiente – una modella o forse un’attrice – che pare avvolto da un velo che ne cela in parte gli occhi. Ricorda la testa di una statua antica protetta da un telo contro la polvere, ma i canoni estetici sono quelli della nostra contemporaneità. Bella e A Gothic Romance rappresentano rispettivamente una ragazza dai lunghi capelli neri e un abbraccio tra due amanti in un contesto ambientale appena accennato, che l’artista ha impiegato frequentemente. Ispirate al film Povere creature!, le due composizioni mostrano la fascinazione dell’artista nei confronti di Andy Warhol, ma anche del mondo dei media e della comunicazione.
Flaminia Veronesi
La joie de vivre. È il refrain identitario di Henri Matisse – titolo di un suo celebre dipinto divenuto poi norma di vita – la miglior chiave per entrare nell’universo creativo di Flaminia Veronesi. Per ragioni formali: l’opzione per colori innaturali, le larghe campiture contrastanti, gli spessi contorni a definire le forme. Ma soprattutto per questioni emotive: tali sono la vitalità e l’energia che sprigionano dalle opere della giovane artista. “L’arte per me è scienza poetica che interroga il mondo attraverso la meraviglia”, dice lei stessa. E i suoi dipinti, come le sue sculture, prospettano un continuo capovolgimento dell’esistente: esseri marini che si umanizzano, crostacei danzanti, donne ibridate a felini. Il dimorfismo eletto a nuova linea evolutiva, sul filo del visionario, dell’assurdo e dello stupefacente.
Forma e colore sono gli elementi costruttivi del racconto del corpo umano e della sua grammatica tattile. Gli azzurri e i rossi giocano sensualmente a fondersi e confondersi. Un naso prova a evolvere in organo sessuale, per penetrare una suadente bocca. Le Mani ballerine scimmiottano la coreografia di due polpi in un danzante e pudico ricercarsi, abbandonando poi del tutto l’infingimento in Mani nude.
Maria Giovanna Zanella
Un po’ Goya, un po’ Soutine. Un occhio a Burri, uno a Nitsch. Carne e sangue, desiderio ed eccitazione. Una pittura selvaggia, liquida e grassa insieme, figurativa, ma scevra da qualsiasi tentazione realista, è quella praticata da Maria Giovanna Zanella. I lavori dell’artista – quasi esclusivamente su carta e realizzati in serie – rendono con forza primitiva e colori ulceranti gli atti sessuali di corpi maschili avvinghiati senza limite: è un susseguirsi senza soluzione di continuità di uomini corpulenti, spesso grassi, in posizioni scomposte e precarie, mostrati mentre si perdono nell’abisso del piacere. Il suo largo pennello attinge a una materia bituminosa che restituisce in maniera densa il sangue rappreso mescolato alla polvere, al sudore, ai liquidi organici dispersi dagli stessi corpi che si amano senza limite. Le inquadrature indugiano sui particolari, l’anatomia è urlata e il suo gesto è sintetico, spigoloso e potente, come una lapidaria frase di Bukowski.
Le opere come Me Kong o Copridito e la serie Senza titolo restituiscono così un mondo erotico in cui l’orgia dei corpi è alimentata dal profluvio cromatico, da una nervosa combinazione di pennellate contrastanti, con vividi colori primari e sferzanti tinte brune al limite del visibile. Un mondo travolgente e dissoluto, in cui l’incontenibile piacere lambisce voyeuristicamente anche l’osservatore più distaccato.