Luciana Tămaș
Ninnananna

Trieste Contemporanea, Trieste
dicembre 2022 ― febbraio 2023

Armi potenziali e domande impertinenti
Daniele Capra


1.
Nei processi di crescita il gioco permette ai bambini di indagare emotivamente il conflitto e, allo stesso tempo, di imparare a conoscere/usare la propria aggressività fisica, psicologica e verbale. In particolare attraverso giochi come la lotta, fare alla guerra e l’utilizzo di armi (realistiche o di fantasia), i bambini sondano parti inesplorate dei propri sentimenti e mettono in atto in forma simbolica le loro azioni. Come Gregory Bateson osserva, “nel linguaggio ordinario, ‘gioco’ non è il nome di un atto o di un’azione: è il nome di una cornice per l’azione.”[1] E, in tale situazione, “il gioco può presentarsi solo se gli organismi partecipanti sono capaci in qualche misura di metacomunicare, cioè di scambiarsi segnali che portino il messaggio: ‘questo è un gioco’.”[2]

2.
Il gioco è nei fatti una modalità auto-conoscitiva per esperire sentimenti, emozioni, dubbi, prima che essi si manifestano nella vita con tutta la loro dirompente problematicità. L’implicito assunto metacomunicativo ha invece la funzione di garante: funge da vera e propria contesto che isola il momento del gioco e in qualche modo lo tiene distante dalla realtà. Il gioco, proprio in virtù di questo, può essere inteso come uno status finzionale, una sorta di mise-en-scène con regole interne frutto di un accordo esplicito tra i soggetti in campo. Ma non c’è rappresentazione, né un destinatario diverso da coloro che vi prendono parte: gli agenti, infatti, sono gli unici che direttamente ricevono e codificano l’azione, la quale va intesa con modalità diversi rispetto alle consuetudini ordinarie.

3.
È lecito pensare che la cornice di gioco rilevata da Bateson sia ugualmente applicabile anche alle opere d’arte contemporanea, le quali, per loro stessa natura, si sottraggono sia alle convenzioni che alle finalità cui le altre creazioni o manufatti umani sono sottoposti. Originalmente gli oggetti rispondono infatti alle differenti necessità che via via si presentano: sono attrezzi da lavoro e strumenti, con finalità per esempio funzionali, rituali, decorative, comunicative, di piacere, d’intrattenimento, simboliche, ecc. (anche se nell’ultimo cinquantennio gli oggetti sono molto spesso il frutto di un’incontrollabile e perversa proliferazione causata dal consumismo[3]). Molte opere oggettuali – che sono quindi sia dei semplici oggetti dotati di una fisicità, che vere e proprie opere – sono invece caratterizzate da una finalità programmaticamente differente: quella interrogativa. Sono state cioè pensate per porre una o più questioni rispetto al contesto fisico, temporale o antropologico in cui sono collocate e agli osservatori che vi s’imbattono. La cornice interpretativa dell’arte consente in questo caso di leggere le opere impiegando criteri differenti rispetto ai fatti di tutti i giorni, tanto più perché sono spesso volontariamente dotate di una intenzionale equivocità in cui si sovrappongono registri interpretativi differenti.

4.
Tale condizione di ambiguità interpretativa caratterizza anche le opere di Luciana Tămaș esposte nella mostra Ninnananna. La mostra raccoglie una decina di recenti lavori dell’artista – essenzialmente di natura scultorea – che indagano il sottile confine tra gli oggetti domestici con cui interagiamo abitualmente e i dispositivi di competizione/guerra pensati per confrontarsi durante un conflitto. Sono oggetti ambivalenti e interrogativi, che veicolano all’osservatore sensazioni contrastanti dovute alle funzioni improprie che sembrano avere e alle loro stesse caratteristiche costruttive. Le opere sono infatti realizzate impiegando materiali di recupero assemblati con modalità da bricoleur ed evidenziano, in forma ironica, il lato offensivo nascosto negli oggetti che usiamo quotidianamente, ma anche nelle forme più banali con cui interagiamo nella vita di tutti i giorni. Tubi di silicone, mollette di metallo, carrelli portapacchi, ritagli di legno o canne da pesca vengono combinati insieme e privati dalla loro funzione, diventando così degli inefficaci (e ludici) strumenti di guerra. Ne escono così dei missili inoffensivi, degli innocui mitragliatori di legno o dei finti droni, costruiti con gli scarti di ferramenta e totalmente inabili al volo.

5.
La pratica di Tămaș è infatti caratterizzata dall’uso dell’assemblaggio e dell’installazione con materiali fai da te e di risulta, che vengono ricombinati con un valore prettamente simbolico. L’artista si muove a partire dall’immaginario tecnologico, della guerra e dell’esplorazione spaziale per creare delle sculture in cui la forma, spesso improvvisata, non corrisponde ad alcuna reale necessità. Tămaș mostra delle imitazioni casalinghe e innocue di tali dispositivi, che sono però privi delle finalità psicologiche esplorative e ludiche che assegniamo, per esempio, ai giocattoli che hanno la forma di un’arma. Quelli realizzati dall’artista sono infatti oggetti defunzionalizzati che incarnano, al nostro sguardo, delle vere e proprie parodie degli strumenti di conflitto, ma anche della mentalità che li sottende: ci fanno sorridere per la tipologia dei materiali, per l’assemblaggio impreciso e per la ludica tendenza al riciclo di elementi, in precedenza destinati ad altro. Tămaș decostruisce l’immaginario degli oggetti domestici mostrandone le ambiguità e i lati oscuri, reimmaginando una variante antropologica e antimilitarista di Semiotic of the kitchen di Martha Rosler. Ma in questo caso non è l’artista la protagonista, quanto invece l’osservatore, spinto mentalmente a immaginare le possibili azioni che gli improbabili oggetti possono realizzare.

6.
Nelle opere di Tămaș assistiamo cioè al reiterato impiego di parti di varia provenienza che preesistono, e sono dotati di una forma propria univoca, facilmente percepibile. Tale modalità di assemblaggio consente spinge l’osservatore a non vedere l’opera in sé, nella sua interezza e materiale unicità, ma a percepire invece i suoi singoli elementi costitutivi scelti dall’artista, frammentando il pensiero. Chi guarda l’opera è infatti sollecitato a proiettarsi altrove, rimbalzando di volta in volta alle origini delle differenti componenti, al loro utilizzo e alla modalità con cui sono state combinate. All’unità della visione scultorea si contrappone quindi una frammentazione ritmata di stimoli. Le opere dell’artista vanno così intese, in senso lato, come degli oggetti-ipertesto, che garantiscono al fruitore la possibilità di muoversi concettualmente in maniera rapida tra i diversi elementi che sono stati connessi fisicamente dall’artista. Le opere dell’artista sono così, in ultima istanza, dispositivi che consentono una pluralità di connessioni.

7.
I lavori di Tămaș somigliano in tutto e per tutto a oggetti domestici anche grazie al fatto che i materiali impiegati – ordinari, a basso costo e speso impiegati in maniera irriverente – non presentano alcuna caratteristica riconducibile alla pratica delle belle arti. Non c’è nella sua pratica scultorea la ricerca della graziosità o della preziosità, quanto invece un beffardo sviare lo sguardo verso la critica antropologica. Infatti le sue opere non rappresentano né illustrano direttamente dei concetti, ma alludono invece ai limiti del pensiero ordinario. Esse servono come strumenti rivelatori che mettono in luce causticamente le potenzialità sovversive, spesso nascoste, insite negli oggetti e negli strumenti di conflitto presenti nelle nostre vite e nell’intimità delle nostre case. Alla loro pervasiva presenza – psicologica e reale – Tămaș risponde così con una domanda da bambini, inattesa e impertinente. L’osservatore è così messo in una condizione critica, lucida e giocosa, alla presa con opere che sono metafore di un progresso sordo, piegato alle esigenze del conflitto e della guerra, e incapace di una tecnologia realmente umanistica.

8.
Difficile immaginare una risposta alle domande che l’artista ci pone, né una via d’uscita a questa condizione. Come il titolo della mostra ironicamente suggerisce, forse non ci resta che la dolce consolazione di una tenera ninnananna.


[1] G. Bateson, Mente e natura, Adelphi, Milano 1984, p. 185.
[2] G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 2000, p. 220.
[3] Cfr. J. Baudrillard, Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano 1972.