Manuel Gualandi
Dentro la Tempesta
SPARC*, Venezia
maggio — luglio 2025
Un rapimento mistico e sensuale
Daniele Capra
Un’ossessione differita
L’ossessione è un “fenomeno patologico che si manifesta con l’insorgenza di un’idea o di una qualsiasi rappresentazione mentale, che, accompagnata da un sentimento d’ansia, si impone al soggetto in modo insopprimibile e lo trascina a compiere determinati atti o ad astenersi da altri, o a fissarsi su determinati pensieri. L’ossessivo è consapevole dell’insensatezza di tali atti e idee, e si impegna in una lotta per sottrarsi al dominio delle sue ossessioni”, secondo la definizione dell’Enciclopedia Treccani. Questa descrizione, che ricade nell’ambito psichiatrico, mette in luce un’inclinazione sostanzialmente patologica di tale manifestazione.
È lecito chiedersi, però, se una variante meno esasperata possa essere impiegata anche per definire la condizione di un pittore come Manuel Gualandi che avverte come irresistibile il richiamo di un’opera d’arte da cui si sente infatuato – e interrogato – da oltre un trentennio. Un dipinto che egli sente parte del proprio tessuto costitutivo, tanto dal punto di vista espressivo quanto esistenziale, benché il suo senso ultimo rimanga tuttora inafferrabile, nonostante i cinque secoli di storia interpretativa.
La genesi di tale ossessione nasce da un amore antico e da vecchie frequentazioni, ai tempi in cui l’artista è studente all’Accademia di Belle Arti di Venezia negli anni Novanta del secolo scorso. All’epoca il pianterreno dell’edificio ospitava gli atelier degli studenti, mentre il livello rialzato era invece occupato dalle Gallerie dell’Accademia, dove, sin dall’inizio dell’Ottocento, erano in mostra le collezioni con alcuni tra i più celebri capolavori della pittura veneta. Per consentire lo studio delle opere dei maestri del passato, l’accesso al museo per gli studenti dell’Accademia è libero, e, in quegli anni, per Gualandi la visita al museo diventa un’esperienza quasi quotidiana.
Tra i tanti lavori esposti, la Tempesta era oggetto di costante attenzione, come un amore che si può seguire solo a distanza, a causa della sua sfrontata ritrosia a non farsi conoscere mai fino in fondo. Quell’enigmatica attrazione si trasforma in realtà in ossessione solo molti anni dopo, quando ormai la complicità di quelle visite quotidiane è archiviata e le esigenze espressive dell’artista hanno nel frattempo esplorato altre forme e altri linguaggi. Nulla però lascia più malinconici del ricordo di un amore giovanile infruttuoso, e il dipinto di Giorgione torna a bussare alla porta di Gualandi, che, questa volta, non ha altra scelta che abbandonarsi pittoricamente a essa.
Letture da scansare
A distanza di tempo la Tempesta, a lungo guardata e studiata, fa nascere così nell’artista il desiderio di affrontare molti di quegli interrogativi che l’opera stessa ha continuato a generare. Il lavoro di Giorgione è enigmatico e non esiste una chiave di lettura esaustiva, a oltre cinquecento anni dalla sua realizzazione. Il contesto e i personaggi rappresentati non sono identificabili in maniera univoca ed è arduo capire la relazione che li tiene insieme. Non è certo se le mura e la porta siano luoghi reali: è una città, un castello o un’invenzione dell’artista? Ignoriamo le motivazioni della commissione dell’opera e possiamo solo intuire il contesto culturale in cui essa ha avuto origine. La scena è di natura biblica o mitologica? È un’allegoria delle relazioni tra Venezia e Padova o allude alla famiglia che l’ha commissionata? Perché c’è un angelo nascosto? E se il dipinto fosse invece un capriccio ispirato dall’estro dell’artista, da egli modificato in seguito, dopo essere stato visto dai Vendramin? Perché allora dipingere una bagnante nel posto in cui ora c’è la figura maschile, come indica la testimonianza radiografica? Difficile dirlo con sicurezza. Per decenni l’opera è stata iconograficamente considerata un hapax, un elemento che ricorre un’unica volta nella storia dell’arte, poiché una donna che allatta e un uomo appoggiato a un bastone non erano mai comparsi. Poi un soggetto simile, a condizione di accettare il fulmine come indicazione di una presenza divina, è emerso nella Cappella Colleoni a Bergamo. Ma ugualmente gli storici dell’arte non sono concordi: siamo ancora tenuti in scacco da un mistero che, cinque secoli dopo, ancora continua a interrogarci.
Gualandi, dopo aver minuziosamente letto quello che la saggistica metteva a disposizione, sceglie invece di tornare alla sua esperienza personale, non prestando momentaneamente attenzione alle questioni interpretative sulle quali continuano ad affannarsi gli esperti d’arte. L’artista ha infatti volontariamente ignorato parole, concetti e interpretazioni per dedicare la propria attenzione agli aspetti visivi dell’opera. Prima, da osservatore, vede delle figure umane inserite in un paesaggio naturale, con un fulmine e una città sullo sfondo. Poi, da pittore, coglie i colori, le ombre, il disegno dei corpi e le morbidezze tonali. Infine, da uomo, avverte l’eros ambiguo di due persone che, probabilmente, si sono amate.
Variazioni con metodo additivo
A quel punto quella dolce ossessione diventa insostenibile e l’artista decide di cimentarsi in prima persona con la Tempesta. Il confronto scelto non è di natura esecutiva, dato che non avrebbe alcun senso sfidare un maestro come Giorgione, tanto più oggi nell’epoca della completa riproducibilità tecnica e della totale inattualità dell’autentico. Ma non è nemmeno strettamente iconografico, poiché realizzare dei d’après, ossia delle opere di natura derivativa a partire da quel soggetto, significherebbe – almeno emotivamente – mettere del sale sui lembi di quella ferita amorosa mai del tutto rimarginata. Gualandi sceglie infatti di agire in forma additiva, aggiungendo del contenuto pittorico su una riproduzione fotografica della Tempesta, dopo averla fatta opportunamente stampare su una serie di tele di dimensioni aumentate del trenta per cento. Tale scelta risponde alle necessità operative di Gualandi, che si sente a proprio agio a lavorare su superfici un po’ più ampie, evitando nel contempo uno scontro diretto.
All’immagine originale, l’artista sovrappone così gocciolature, pennellate e macchie di colore verde, celeste, bianco. Talvolta l’impasto cromatico non è mescolato, in altri casi è omogeneo, e frequentemente le aree sono dotate di uno spessore corposo e irregolare. I dipinti sono lavorati a coppie, l’uno a fianco all’altro, come spesso si può cogliere dai dettagli esecutivi che ricorrono. Il primo e il secondo presentano velature sull’immagine originale; il secondo e il terzo interventi più corposi e coprenti; l’ultimo, invece, presenta la totale scomparsa delle persone e di ampie porzioni del paesaggio a favore di nuovo materiale pittorico aggiunto. Il processo prevede successivi interventi mirati a modificare la Tempesta operando attraverso la rimozione e rimodulazione di alcuni suoi elementi, e la forma scelta è quella concatenata: gli esiti di ciascuna elaborazione non vengono concepiti come isolati e autonomi, ma, al contrario, sono i prodromi che conducono necessariamente alla trasformazione successiva.
Gualandi considera questa primo gruppo di opere come “variazioni”, in maniera tale da consentire la riconoscibilità della fonte iconografica giorgionesca. Questo accade sovente con le variazioni anche nella musica (si pensi, ad esempio, alle celebri Variazioni Goldberg di Johann Sebastian Bach), in cui il tessuto sonoro lascia nella memoria uditiva dell’ascoltatore una traccia temporanea, che viene elaborata e trasformata in quella seguente dal compositore senza che essa venga percepita come una creazione totalmente ex novo. Il processo è cioè di natura continuativamente metamorfica.
Studi e dopo
Tale struttura, basata su una logica concatenata a sviluppo cronologico, viene applicata anche nella fase pittorica successiva, in cui Gualandi decide di non usare più una riproduzione dell’opera di Giorgione, ma una tela intonsa su cui dipingere direttamente. Nella maggior parte dei casi, la dimensione scelta è quella originale (82 x 73 cm) e l’approccio pittorico è più libero e spontaneo. La Tempesta, in questa fase del progetto, inizia a essere un’orma, una traccia del passato che va contemporaneamente presa in considerazione e dimenticata, assecondando in maniera naturale tanto la persistenza del contenuto visivo quanto il suo svanimento. In queste opere coesistono, infatti, in maniera ambivalente e anfibia, opposti criteri di vicinanza e di distanza dal soggetto iconografico di partenza. La pittura si fa morbida e sfumata su una tela senza una completa imprimitura, in cui parte della superficie è lasciata grezza.
Ma poi, nei lavori successivi, il colore si fa materico e sabbioso, la figurazione comincia a essere ondivaga e finisce per dissolversi in un linguaggio quasi informale. Nelle ultime tele della sezione diventano così protagonisti il segno e il gesto, anche in forma lirica, con una grammatica espressiva simile a quella della pittura analitica. In questo modo, scarnificata ed erosa, l’immagine della Tempesta vive nascostamente, orientando le scelte dell’artista in assenza. Infatti, in questo frangente, di Giorgione rimane solo l’ombra lunga. Anche i due ripensamenti figurativi (il sesto e il nono di questo gruppo) sono in realtà concettualmente distanti dall’opera cinquecentesca, benché fantasie da quell’opera derivate. Al centro dell’attenzione di questi dipinti è ora il corpo femminile e l’eros incarnato dalla vulva, la quale, umida e muschiosa, si fa allo stesso tempo paesaggio di campagna e oggetto del desiderio che il pittore sente l’esigenza di condividere con l’osservatore.
I lavori di questa sezione vengono chiamati dall’artista “studi”, usando una parola che è generalmente impiegata per definire un’opera con una funzione preparatoria o esplorativa. In questo caso il termine è improprio, e delinea invece un approccio la cui finalità non ha una vocazione costruttiva (cioè anabolica), bensì quella di smantellare la Tempesta isolando alcune delle sue componenti (una funzione catabolica). In questo modo Gualandi parla di sé, di ciò che vede e sente nell’opera i Giorgione, ma lo strumento che impiega è una finzione letteraria a posteriori, conscio che gli accadimenti che narra non potranno mai essere verificabili.
Silenzi, disegni e feste dopo la tempesta
Questa battaglia corpo a corpo con l’idea della Tempesta, contro la sua seducente protervia iconografica, conduce progressivamente l’artista a dissolvere concettualmente l’immagine fino a raggiungere il suo grado zero. Cancellate le figure umane, rase al suolo le architetture e annullato il paesaggio, il soggetto originale dell’opera perde del tutto il suo senso: niente “paesetto”, niente “tempesta” e niente “cingana e soldato”, di cui parlava Marcantonio Michiel nella sua prima sommaria descrizione del 1530. Ma questo rigido inverno fa germogliare dei fiori inattesi in primavera. Nascono infatti tre monocromi, ciascuno dei quali è una tinta campionata del dipinto originale di colore blu ottanio, verde linfa e verde brillante. Sono tre lavori di semplice pittura coprente: un esercizio quasi meccanico di distribuzione del colore, su tela della stessa dimensione dell’originale. Gualandi, nel decostruire il soggetto iconografico, sembra in questo modo volerci dire che nell’opera di Giorgione non vede che colore. Tutto il resto, comprese le teorie interpretative e le nostre stesse parole, sono al confronto solo chiacchiere.
Il passo successivo è invece una sorta di rappacificazione con l’opera di Giorgione, poiché l’artista realizza dei veri e propri d’après, disegnando su carta con minimi interventi di colore. Sono particolari del dipinto, con una predominanza di dettagli erotici del corpo femminile, ma l’atmosfera è distesa, e la Tempesta pare a questo punto quasi un pretesto per parlare d’altro, per deviare nei temi con leggerezza e molta libertà. L’artista sembra in questo momento aver deposto le armi, senza più soffrire la presenza di un’opera dalla bellezza e dalla forza così ingombranti. Il respiro si fa in breve tempo calmo e rilassato, in attesa di qualcosa.
La grande porta di Kiev
Puntualmente arrivano gli squilli di tromba che annunciano La grande Tempesta, opera di oltre due metri. Gualandi riprende l’opera di Giorgione, ne esegue una rielaborazione digitale simulando il metodo dei retini da stampa e, dopo averla impressa sulla tela, continua a dipingerci sopra, cancellando le figure umane, il cui alone gravita come una memoria nebbiosa. Il lavoro, composto da quattro tele affiancate, ha le medesime proporzioni dell’originale, ma il formato è magniloquente e, rispetto alla dimensione intima dell’originale, perfino monumentale. Gli azzurri, i verdi e i gialli sono intensi e luminosi. Il fulmine sembra ora il bagliore del sole che gioca con delle nuvole bizzarre: niente è più così cupo e misterioso come in Giorgione. Non si sentono forse gli uccelli far festa, come nella lirica di Leopardi, ma “passata è la tempesta”.
L’effetto è una sorpresa, per il tono e lo stile totalmente differenti da quelli impiegati prima. Concettualmente, rispetto a tutti i lavori della mostra, quest’opera è assimilabile a La grande porta di Kiev, il pezzo che chiude i Quadri di un’esposizione di Modest Musorgskij. La composizione, originata da una visita del compositore a una mostra di quadri dell’amico Victor Hartmann, ha il suo culmine con il brano conclusivo che celebra in forma magniloquente l’esperienza della visione dei dipinti. La grande Tempesta è come La grande porta di Kiev: un tributo a un’esperienza, visiva e intellettuale.
Omaggio o iconoclastia?
La pratica artistica di Gualandi è caratterizzata da una fascinazione per le immagini della storia dell’arte, che spesso vengono impiegate come fonti iconografiche, e da una pratica in cui coesistono una grammatica concettuale e l’impiego di differenti grammatiche pittoriche. Il ciclo di lavori sulla Tempesta riconduce l’opera di Giorgione alla sua originale materialità più diretta e di natura terrena, costituita da olio, pigmenti, stratificazioni, grumi di colore e setole di pennello che scorrono sulla superficie. In tale processo Gualandi pare incerto se rendere omaggio al monumento originale, oppure operare in forma iconoclasta rispetto al soggetto pittorico, alla sua storia, alla sua capacità di generare meraviglia. È un’ambiguità voluta e praticata – anche se forse l’artista non vuole ammetterlo – suggerendoci che la pittura può essere un metodo per riguardare la nostra storia, per leggere il nostro mondo, e in esso agire. Trasformandolo, rielaborandolo o riscrivendolo senza avere alcun complesso.