Marina Marković
The Arrangement(s)

Salon, MoCAB, Belgrado (RS)
giugno — agosto 2024

La mia pelle sui tuoi occhi
Daniele Capra




Non mi era mai capitato prima di scrivere un testo per una mostra che non corrispondesse al genere saggistico, con cui sono solito esprimermi nel mio lavoro di curatore. Questo scritto, infatti, non risponde – per linguaggio, tono e struttura – a delle richieste ‘ordinarie’ o a delle aspettative in qualche modo ‘istituzionali’ che maturano nell’attività di relazione con un artista e un museo. È invece il frutto di una serie di riflessioni personali maturate nei mesi che precedono la mostra di Marina Marković The Arrangement(s). Qualcosa di anomalo che, da parte mia, nasce da urgenze espressive e logiche intime che in parte ancora mi sfuggono, e che probabilmente continueranno a generare in me ulteriori riflessioni negli anni a seguire. Tale processo è stato innescato da Marina [1] stessa, che mi ha sollecitato a immaginare un testo da scrivere sul suo corpo: un concetto, una frase, delle parole o anche dei segni d’interpunzione che sarebbero stati tatuati sulla sua pelle durante la sua personale presso il Salon del Museo di Arte Contemporanea di Belgrado. E, mentre tale invito mi ha creato estremo piacere (il piacere di lavorare insieme a una artista che si stima, il piacere di ‘militare’ al suo fianco), a spiazzarmi è stata l’estrema libertà che l’artista mi ha concesso. Non mi è stato posto alcun limite, oltre a quelli immaginabili dovuti all’estensione del corpo stesso.


In precedenza non ho mai ‘scritto’ il corpo di una persona attraverso un linguaggio e una grammatica codificati. Ci sono andato vicino nella mia giovinezza, in maniera scomposta e senza alcuna consapevolezza, lasciando dei ‘segni’ sul corpo di altre persone come effetto di contrasti casuali particolarmente intensi praticando sport quali il rugby e il basket. Poi, più da maturo, la cosa mi è capitato in occasione di incontri amorosi, in cui la ricerca del piacere ha prodotto involontariamente nel corpo altrui ecchimosi, piccoli ematomi, irritazioni, graffi e morsi. Ho però sempre avuto una forma di pudore nel lasciare un segno, pur momentaneo, su un corpo. Anche nel caso di amanti che mi chiedevano letteralmente di essere ‘prese a morsi’, mi sono trattenuto, perché ho sempre avvertito la cosa come una forma di violazione della pelle, del corpo e della persona. E similmente non ho mai desiderato tatuarmi niente sul mio corpo, come una frase, un motto, il nome di una persona per me importante, o un’immagine: lascio che a scrivere su di esso sia solo il tempo che passa e i segni che esso lascerà. Inoltre non ho mai sopportato l’idea di qualcosa che rimane ‘per sempre’ e, benché ora la chirurgia estetica conceda di cancellarlo, concettualmente un tatuaggio è un segno indelebile sulla pelle, che rimane ed è visibile anche nel momento in cui non lo si guarda.


La vista e il tatto, tra tutti i nostri sensi, incarnano delle modalità opposte di relazione con il mondo. Gli occhi sono un organo che agisce da distante, mentre invece la pelle da vicino. Il mio occhio vede un ritaglio di realtà o, per essere precisi, una proiezione di qualcosa che è altrove, a distanza dal globo oculare. La vista è un senso che agisce rispondendo a una logica centrifuga, ricevendo cioè le informazioni che si irradiano direttamente da dove accade il fenomeno: in questo modo l’occhio mi avverte e mi dà notizie sul contesto, contribuendo a rompere il mio stesso isolamento in quella porzione di spazio in cui sto vivendo. La pelle, al contrario, sente direttamente su di sé, attraverso il contatto, la pressione o lo sfregamento qualcosa che agisce in maniera diretta sul mio corpo: registra la presenza dell’altro in forma centripeta rispetto al fenomeno. Afferma il mio esistere in quel momento in quanto corpo. Conferma, come scrive Jean-Paul Sartre, che “esisto il mio corpo” e che “il mio corpo è utilizzato e conosciuto da altri”. E avvalora, inoltre, il fatto che “in quanto io sono per altri, altri mi si manifesta come il soggetto per il quale io sono oggetto.” [2]


Non riesco a liberarmi da questa ossessione della pelle che Marina mi ha instillato. Non riesco a pensare ad altro e continuo a guardami la pelle delle mani e delle braccia, mentre scrivo al computer senza mai cogliere fino in fondo tutte le differenze nell’incarnato, nella pigmentazione, nella lucentezza o nella forme che la pelle assume, mentre muovo l’avambraccio, il polso o le dita. La pelle mi avvolge e si insinua nelle parti più disparate disponendosi e piegandosi secondo i movimenti che quella parte di corpo fa in maniera ricorrente. Per esempio le pieghe tra i pollici e gli indici della mie mani non hanno lo stessa distribuzione di quelle del gomito; e, inoltre, la posizione che assumo delimita in maniera diversa il colore stesso della mia pelle. Infatti, anche se mi percepisco in forma continua, il mio confine col mondo (che la pelle delimita costantemente) è sottoposto a continui micro-cambiamenti, a incessanti negoziazioni imposte dalla mia fisiologia, dalle mie condizioni psicologiche e dalle attività che intraprendo, ma anche dalle variabili atmosferiche e meteorologiche del luogo in cui mi trovo. Continuo a guardami i palmi delle mani, guardo i segni delle pieghe, la non perfetta distribuzione delle linee, e penso ai miei confini ‘mobili’. Un confine che è sempre e solo tra me e il mondo, e che tu e gli altri siete abituati a vedere direttamente solo su testa, mani, braccia, e più raramente piedi e gambe.


La pelle contiene il mio corpo, ne è il bordo estremo e mobile che sancisce il limite tra me e il mondo: registra sfioramenti, carezze, graffi, soffi, sfregamenti, baci, morsi, suzioni, titillamenti, pressioni, massaggi, solletichi. Trova spesso piacere nell’essere toccata e nel trasmettere le informazioni che riceve. Il corpo, infatti, come scrive Jean-Luc Nancy, “gode a essere premuto, pesato, pensato dagli altri corpi e gode nell’essere quello che preme e pesa e pensa gli altri corpi. I corpi godono e sono goduti dai corpi.” [3] La pelle avverte la fisicità del contatto, l’intensità della pressione, il reciproco adeguarsi delle due parti che ti toccano. Il sé-corpo, avvolto nella pelle, gode della condivisione della propria superficie estesa e, inoltre, dell’essere confine che subisce continui sconfinamenti. Quindi se in segno di benvenuto ti do la mano e ci stringiamo con le dita sconfiniamo. Se ci abbracciamo sconfiniamo. La pelle si adegua, è elastica, e si adegua al cambiamento della nostra postura avvolgendoci in maniera differente. La pelle, che mi protegge e trattiene dal mondo, permette così anche di ricevere direttamente sul proprio corpo le impronte che l’altro lascia, la massa altrui che agisce fisicamente su di me.


Di chi è però la pelle che avvolge le mani in questo momento in cui le guardo, mentre sto scrivendo? È l’ultimo lembo del mio corpo o il primo velo del mondo? E, inoltre, la pelle è un elemento mio, personale, perché la porto in giro con il mio corpo? O è degli altri che la possono vedere, benché non sempre e non ovunque? I due aspetti non sono forse in opposizione poiché la pelle, per sua stessa natura, non risponde al principio di non contraddizione. È mia e altrui allo stesso tempo, perché è una lamina sottilissima che sancisce in maniera univoca solo la ‘distribuzione’ della superficie nella facce interna ed esterna (al contrario del celebre nastro di Möbius), ma non la titolarità di ciascuna delle facce. La mia pelle è così anche tua, e ugualmente la tua pelle è anche mia, se entriamo in contatto. Ma cosa accade se, anziché toccarci, quella pelle è solo vista da distante? Di chi è? Secondo quali criteri va immaginata?





Mi faccio questa domanda immaginando la pelle di Marina che sarà tatuata sotto ai miei occhi e a quelli di tanti osservatori che assisteranno alla performance. Di chi è la pelle dell’artista? È di certo sua, almeno nella volontà di mostrarla e di volerne fare materia espressiva, un manifesto, un campo di battaglia forse, usandola per scriverci qualcosa. Ma è anche mia e tua, dato che a noi è affidato il ruolo di spettatori, di coloro che vedono la pelle che si gonfia e si irrita sotto gli aghi carichi di inchiostro del tatuatore (e, al contrario di San Tommaso, non abbiamo bisogno di credere toccando [4]). Penso che per un’artista che pratica la body art non valgano le medesime convenzioni di una persona che non fa un uso ‘espressivo’ del proprio corpo. Mentre infatti nella maggior parte del tempo il corpo di un body artist è di suo esclusivo possesso, quando sta avvenendo una performance il suo corpo smette di essere solo suo. Immagino la pelle di Marina come un’entità extraterritoriale, come la sede dell’ambasciata del suo corpo in un altro stato, al di fuori del suo confine originario. Quando viene esibita nel contesto di una performance, la pelle di Marina diventa ‘pubblica’, e la rappresenta al di fuori di lei: è una sua proiezione offerta a noi che valica l’Heimat [5] del suo corpo. E infatti diventa momentaneamente di tutti coloro che vedono quella pelle scriversi. Ed è anche di coloro che conosceranno successivamente ciò che è avvenuto attraverso il racconto o la documentazione visiva. È la sua-mia-nostra pelle.


Con The Arrangement(s) Marina decide di farsi tatuare di fronte a noi, esponendosi allo sguardo di tutti, come un martire laico che testimonia con il proprio corpo i principi e gli ideali a cui crede. Mi sono chiesto ripetutamente nelle ultime settimane se in questa performance adotti la prospettiva critica femminista del male gaze o se, al contrario, usi a proprio vantaggio il male gaze per le sue finalità espressive. Se da un lato penso che l’artista sia libera fino in fondo di decidere senza alcun tipo di vincolo ogni aspetto della sua performance (come per esempio la postura da assumere, l’abbigliamento e le modalità con cui formalizzare la propria opera), dall’altro avverto che proprio quegli stereotipi siano da lei impiegati per veicolare i suoi contenuti, per essere più guardata dagli altri, per essere – come artista – più seducente. In buona sostanza immagino che voglia criticare quello schema adottandolo e, nel contempo, privandolo di senso. Il corpo, il principale strumento espressivo di Marina, è uno dei principali campi su cui si esercita il potere maschile: seppur con diverse distinzioni, secondo le critica femminista il corpo delle donne è per antonomasia un ‘oggetto’ passivo. Come scrive Laura Mulvey, in uno dei testi teorici fondativi del femminismo, “in their traditional exhibitionist role women are simultaneously looked at and displayed, with their appearance coded for strong visual and erotic impact so that they can be said to connote to-belooked-at-ness.” [6] The Arrangement(s) incarna tale schema interpretativo: la sua pelle è infatti esibita e offerta in pasto ai nostri occhi, forse anche ai nostri inconfessabili desideri, ma la sua opera nasce dalla piena consapevolezza di tale condizione, mirando intimamente a ribaltarla. Non è infatti ‘oggetto’ messo in scena, prigioniero di desideri e proiezioni maschili, ma ‘soggetto’ che vuole proporre la sua narrazione del sé, mettendo in discussione gli stereotipi di attività/passività, dominio/sottomissione. Marina non è un gattino che dorme e si lascia accarezzare, ma una tigre che, mentre la guardiamo, ci fissa con i suoi occhi.


Quando vedo le parole sul corpo di Marina vedo l’immagine di un corpo che presenta un testo scritto. Per essere preciso non vedo un corpo, ma l’immagine di un corpo che mostra la propria superficie, cioè la propria faccia esposta, e poi sopra un testo. Un testo scritto è un insieme di segni che corrisponde a dei suoni e a un significato: è una rappresentazione grafica ed è esso stesso un’immagine. L’opera dell’artista è, quindi, un’immagine formata dalla sovrapposizione di due differenti immagini: la pelle, che è un elemento ‘figurativo’ che in qualche modo si autorappresenta, e il testo, che è un’immagine che percepiamo come ‘non iconica’. Sono immagini che i miei occhi trasmettono in uno spazio dentro di me, il quale provvede – in base alle mie esperienze, alla mia cultura, alle mie inclinazioni, alle fobie o i miei amori – a ordinare, fissare nella memoria, trattenere. Ma vedo immagini, e questo comporta che sia il corpo che il testo tatuato non siano neutri, ma rispondano invece alle medesime convenzione e regole compositive delle immagini. Per esempio possiamo pensare al testo come il soggetto in primo piano, mentre la pelle come sfondo, quasi fosse un paesaggio. O immaginare che il testo sia il repoussoir [7] del corpo, che assume in questo modo il ruolo di reale soggetto dell’opera. Infatti risulta difficile mettere a fuoco allo stesso tempo il testo e la pelle, aspetto evidenziato anche dal colore scelto per il tatuaggio – il rosa – che non è in contrasto con la pigmentazione della pelle, come capita nella maggior parte dei tatuaggi. Va considerato, inoltre, che il corpo non è un foglio bianco, ma è dotato di una simmetria destra/sinistra, aspetto che si può rispettare o non prendere in considerazione. Però in passato i testi che Marina si è tatuata hanno assecondato la forma del corpo, essendo distribuiti in maniera simmetrica rispetto alla sua fisiologia. Mi attendo che, anche in questo caso, le parole che sceglierò rispetteranno tale regola di simmetria. E, inoltre, la regola della brevità, poiché un testo troppo lungo non produrrebbe un’immagine coerente con il resto. Mi sono interrogato se io debba attenermi a tale limitazione, e mi sono convinto che la brevità è l’elemento che rende il testo fisicamente leggibile e intellettualmente comprensibile. Poi le cose sono andate in altra direzione [8].


Mentre guardo ancora le mie dita che digitano sui tasti sento il peso della responsabilità di scegliere un testo che via via si alleggerisce. Comincio a pensare che, in fin dei conti, è Marina a ‘parlare’, mentre io sono solo un suggeritore nascosto nella buca, il quale al massimo può dare qualche indicazione a chi è sul palco. Sono un curatore e non posso certo avere il ruolo centrale che spetta all’artista. La ‘realtà’ non sta nella mia testa (come supponeva il sinologo Kien di Auto da fè di Elias Canetti [9]), ma nel mondo, nel corpo dell’artista, nella sua pelle che si pigmenterà di rosa. Non vedi la sua-mia-tua pelle dispiegarsi morbidamente sotto i nostri occhi? Non avverti le mie parole diventare improvvisamente nostre?


[1] Da qui in avanti ho scelto di usare il nome dell’artista e non il suo il suo cognome (come sarebbe auspicabile attendersi in un contesto formale) per vicinanza umana e professionale all’artista. Mi sento un curatore militante, vicino agli artisti. Quando penso a lei, penso a “Marina”. Usare “Marković” in un testo che non è un saggio sarebbe stato per me inutilmente formale.
[2] J.P. Sartre, L’essere e il nulla, Il saggiatore, Milano, 2008, p. 453.
[3] J.L. Nancy, Corpus, Cronopio, Napoli, 1995, p. 96.
[4] Il racconto di San Tommaso che tocca il corpo di Gesù non ha in realtà alcun riscontro, ma è stato avvalorato dalla Chiesa nei secoli. Confronta G.W. Most, Il dito nella piaga. Le storie di Tommaso l’Incredulo, Einaudi, Torino, 2009.
[5] È impossibile fornire una definizione esaustiva del concetto di ‘Heimat’ presente nella lingua tedesca, che si può tradurre come “paese natio, comunità di appartenenza, patria, ecc.” (confronta P. Blickle, Heimat: A Critical Theory of the German Idea of Homeland, Camden House, Rochester, 2002). In questo caso immagino l’‘Heimat’ di Marina come il corpo che risponde solamente alle sue stesse personali istanze, come la ‘casa’ di suo uso esclusivo.
[6] L. Mulvey, “Visual Pleasure and Narrative Cinema”, in Screen, XVI, n. 3, 1975, p. 1.
[7] The repoussoir is “an object along the right or left foreground that directs the viewer’s eye into the composition by bracketing (framing) the edge”, Wikipedia, https://en.wikipedia.org/wiki/Repoussoir (consultato il 16.06.2024).
[8] Avevo inizialmente suggerito a Marina di farsi tatuare “La mia pelle sui tuoi occhi”, pensando all’osservatore che appoggia i propri occhi occhi sulla pelle dell’artista. Successivamente Marina ha scelto un testo più lungo, contraddicendo con tutti i miei desideri di brevità. Come frequentemente capita, l’artista ha visto l’alba dentro l’imbrunire.
[9] E. Canetti, Auto da fé, Garzanti, Milano, 1967. Peter Kien, il protagonista del libro, è un esperto sinologo che, nella prima del romanzo, si relaziona con il mondo esclusivamente attraverso i libri. Dopo una folle immersione nei bassifondi della città ne riemerge stordito, travolto, incapace di opporsi al dissolvimento della realtà.