Michal Martychowiec
Destination

Venezia, Galleria Upp
aprile ― giugno 2011

Sous le pavées la plage
Daniele Capra




Siamo soliti considerare il desiderio come un moto intenso, un impulso volitivo che ci spinge a rivolgere altrove la nostra attenzione. È una dinamica centrifuga in cui il soggetto esprime la necessità di bucare il muro chiuso della propria sfera personale. Come spiegava Lacan, «il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro, in cui “dell’” è la determinazione che i grammatici chiamano soggettiva, cioè che egli desidera in quanto Altro» [1]. Il desiderio esprime quindi la tendenza al spostarsi in un altro luogo, a guardare dove prima non volgevamo lo sguardo, in una dinamica che influenza il nostro presente e la costruzione del nostro futuro: attua cioè la sua capacità costruttiva per il tempo che è davanti a noi, e che non si è ancora manifestato.

A questa logica sembrano opporsi le opere di Michal Martychowiec riunite nella serie The Magic Mountain. Per questo progetto Martychowiec compie una sorta di ritorno all’origine, in uno delle mete che era solito visitare durante gli anni dell’infanzia, alla ricerca dell’atmosfera e delle suggestioni che occupavano la sua memoria. Un cammino a ritroso, in cui le brume ondivaghe del ricordo sono costrette a fare i conti con la divaricazione temporale, con l’imprecisione e la vaghezza che filtrano, deformano o inaspriscono ogni dettaglio; ma anche con la forza irresistibile del desiderio e della volontà, che si manifestano retroattivamente, arrangiano e riaggiustano i particolari secondo le aspettative esistenziali ed intime che sono via via maturate.

Sono luoghi diversi quelli che lui ri-vede e fotografa, e le immagini che ottiene ritraggono un mondo che non è quello che lui conserva nei suoi ricordi: non tanto per il cambiamento esterno (cioè per eteronomia), ma perché le volontà individuali agiscono, in forma inaspettata, anche su tutto quello che temporalmente ci è collocato dietro: i desideri, quindi, plasmano ed influenzano anche il nostro passato, sedimentandosi al di fuori della nostra coscienza.

Nelle nebbie di quella montagna incantata [2], che l’artista polacco scopre e fotografa diversa perché forse egli stesso la voleva inconsciamente diversa, viene a crearsi un cortocircuito di senso, dato che il mondo che ci sta alle spalle e che diamo per certo – quando è influenzato da desiderio ed aspettative individuali – non coincide più con l’immagine che conserviamo. I ricordi diventano così sfuggenti e palesemente falsificabili, braci incandescenti di cui ignoriamo il calore, l’instancabile vitalità e le possibilità incendiarie. Martychowiec mostra così come non sia possibile immergersi due volte allo stesso fiume (come già Eraclito ci ammoniva), ma come quel fiume – forse – possa essere solo una proiezione retroattiva della nostra volontà. Solo una montagna, che si vede tra gli alberi e la foschia, ci dà conferma che qualcosa sia esistito proiettando su di essa la nostra volontà di raggiungere una nostra meta qualunque. Tutto il resto è nebbia impalpabile per i nostri occhi.

Nella serie Heavenly Coppice è la foresta ad essere protagonista, un bosco che si svela nella propria naturale e misteriosa natura di luogo magico, di spazio impenetrabile in cui perdersi. È la selva oscura in cui Dante si smarrisce, uno spazio apparentemente omogeneo in cui non sembrano valere le regole della topologia ed ogni sentiero sembra uguale a quelli vicini. È il luogo in cui gli eroi dei poemi cavallereschi si perdono, scoprono un mondo fatato prima sconosciuto o impazziscono diventandone prigionieri: uno spazio con poca luce in cui l’uomo si confronta con la natura rimanendone spiazzato, schiacciato. E nel contempo è anche il luogo dell’origine, del primordio, che rimanda ad un passato in cui antropologicamente l’uomo era animale che li poteva trovare cibo e un rifugio.

La foresta che Martychowiec ritrae è un microcosmo in cui bisogna avere la forza di esercitare un controllo razionale, in cui chi si smarrisce è perduto per sempre, nell’intrico degli alberi e dei rami. Anche colui che guarda le immagini ne è inevitabilmente vittima, dato che mancano punti di riferimento o elementi che ci permettono di ricondurre il luogo ad un concetto di misurabilità: la foto è una superficie in cui la tridimensionalità e l’intrico di vegetazione sono solo inconsapevoli stratagemmi per indurci a perdere il senso dell’orizzonte. Nel buio affascinante, misterico del dover vedere per cenni, solo i personaggi dalla Caccia nella foresta di Paolo Uccello – che l’artista polacco immortala prendendoli in prestito dalla storia dell’arte – sembrano perfettamente a loro agio. Sono ritagli di un mondo sommerso e lontano, collocati in un contesto da ri-pensare. Allo spettatore non resta che fare lo sforzo, trattenere il respiro, ed immaginare come sotto il pavé dello sguardo ci sia la spiaggia [3].




[1] J. Lacan (1966), Soggetto e desiderio nell’inconscio freudiano, in Scritti, a cura di Giacomo Contri, Einaudi, Torino 1974 e 2002, vol. II, pag. 817.
[2] The Magic Mountain trae evidente ispirazione dall’omonimo romanzo di Thomas Mann.
[3] «Sous les pavés la plage» è stato uno degli slogan del Sessantotto francese. L’espressione esprimeva il desiderio che, sotto la città irreggimentata e indurita della pietra, ci fosse la libertà delle spiagge (rappresentate dalla sabbia in cui la pavimentazione è collocata).