Massimo Spada
Pavistil
Ex negozio Pavistil, Conegliano
ottobre ― novembre 2021
I tentativi di vedere, in un negozio vuoto, ciò che non si è visto
Conversazione a cura di Daniele Capra
Daniele Capra: Quando mi hai chiamato per chiedermi di vederci non sapevo di cosa avremmo parlato. Sapevo solo che non ci saremmo visti in studio o in casa. Non mi ero preoccupato più di tanto della questione. Mi hai mandato uno screenshot da Google Maps e l’indirizzo del posto: un negozio. Su Maps il luogo risulta ancora attivo, ma non avevo fatto caso ai dettagli. Conosco un po’ quell’area di Conegliano, anche se non perfettamente le attività commerciali. Essenzialmente quello era per me l’angolo tra via Piovesana e il parcheggio, lo spigolo tra il pieno dell’isolato e il vuoto dell’asfalto. Ho posteggiato e poi, avvicinandomi, mi sono accorto che il vuoto era anche dentro quello spazio. Pavistil non esiste più, è memoria, benché le tracce del suo essere stato siano presenti. La moquette è più consunta in qualche zona più calpestata, i muri mostrano i disegni che gli oggetti o i mobili lasciano quando vengono rimossi. Il serpentone sospeso di neon che disegnava il soffitto è interrotto, l’insegna con la scritta realizzata coi font floreali fricchettoni è stata riposta nel retrobottega. È un ex-luogo e, insieme, un ante-luogo. Ossia uno spazio potenziale, da semantizzare con nuove attività, nuove grammatiche. Tu eri in piedi e guardavi in giro. Non so esattamente cosa, né perché: forse la luce del sole che entra da quelle che io chiamo “vetrate” e tu invece “vetrine”, o forse altro. “Vetrate” pone l’attenzione sul materiale di cui sono costituite e la dimensione. “Vetrine” sulla loro funzione espositiva. Tu, però, di quel luogo conosci la storia. Perché eri lì?
Massimo Spada: Mi trovavo lì per prendere delle misure dello spazio, utili a collocare una parete supplementare a quelle esistenti per proiettare un’immagine. Dopo l’incontro che abbiamo avuto, ho immaginato invece di utilizzare il negozio come base per un’installazione temporanea che mette in mostra le suggestioni dello spazio stesso, assieme ad altri lavori che sto sviluppando. La prima scrittura utile proviene dalle pareti, che riportano i segni dei quarantacinque anni di attività del negozio: queste tracce sono molto suggestive, il punto di partenza di un discorso. Tra l’altro questa sorta di scrittura mi ricorda molto la tecnica del riporre gli oggetti direttamente sopra la carta fotografica, che, impressionata direttamente alla luce e poi sviluppata, riporta il disegno dell’oggetto appoggiato. Trovo vicina la definizione che hai dato delle vetrine nel senso di evidenziare la funzione del far vedere, del mostrare. Effettivamente in questo mio lavoro costituiscono una parte fondamentale del progetto, essendo una zona del negozio molto ampia che permette di vedere totalmente l’interno. Sono sempre stato affascinato dalle vetrine, ne ho fotografate alcune in passato, perché per me hanno una forte analogia con il fotografico: abbiamo un vetro e dei soggetti in mostra, una sorta di grande inquadratura ben composta.
DC: La vetrina è un dispositivo che serve a mettere in mostra delle merci ed è uno dei prodotti della modernità e della vita urbana. Solo dalla fine del Settecento, con il crescere della classe borghese nelle città, i negozi cominciano a esporre alcuni dei prodotti che hanno a disposizione con l’idea di stimolare i potenziali clienti e, insieme, di dare un saggio di ciò che può essere acquistato. Il negozio non è più solo un magazzino al cui interno si va alla ricerca di qualcosa che corrisponda alle esigenze dell’acquirente, ma anche uno spazio che si mostra, che ha un’immagine di sé e la fornisce all’esterno con una strategia. Quindi non una scatola che si deve necessariamente aprire per conoscerne il contenuto, ossia il negozio come deposito, ma un display, che fornisce al passante delle informazioni precise, frequentemente allusive e seducenti, in grado cioè di generare desiderio. Si pensi per esempio alle foto di Eugène Atget: Parigi si popola di vetrine, che diventano un’ulteriore, ruffiana curiosità per il flâneur urbano in cerca di esperienze visive. Ma le vetrine sono evidentemente anche impaginazione di prodotto, in uno spazio tridimensionale generalmente non molto profondo: sono immagine, interazione di colori, forme, pieni e vuoti. Sono un ritaglio di realtà riportato su un piano quasi bidimensionale: se la fotografia riporta in piccolo (il negativo o il file) qualcosa di ben più grande che è stato catturato, le vetrine, al contrario, mostrano in grande qualcosa di quantitativamente piccolo, almeno rispetto all’insieme di provenienza. Le fotografie mostrano perché hanno ridotto un soggetto, le vetrine mostrano perché hanno ingrandito un soggetto. E comunque, in quanto tali, rispondono a delle regole visive che sono soggette alla cultura visiva, ai gusti, alle mode, alle consuetudini, all’urbanistica e alla topologia di un luogo.
MS: Condivido la lettura/definizione estensiva di vetrina. E, tra l’altro, Eugène Atget è un mio pensiero fisso, come riferimento storico, per le immagini delle vetrine che ho fatto in passato. Rispetto al luogo, siamo nella zona periferica di Conegliano e tutte le costruzioni attorno sono edifici costruiti nel Dopoguerra, periodo che coincide con il celebrato miracolo economico. In quest’area, complice la frenetica ricostruzione urbanistica, l’entusiasmo per un’economia in così forte crescita ha spinto Adele e Armando ad aprire Pavistil: un negozio di pavimenti, nello specifico linoleum, moquette e prefiniti. Adele era la parte commerciale dell’attività, Armando il posatore. Il negozio di prodotti per la pavimentazione e, insieme, il contesto urbanistico che evoca un determinato periodo storico sono stati elementi di stimolo per il progetto: questa ricerca è originata da un interesse per l’immagine di prodotto e di natura pubblicitaria, ma comprende anche la pura immagine di documentazione. Ed è significativo notare che è proprio nel periodo del miracolo economico in cui era stato fondato il negozio che vediamo nascere le prime immagini fotografiche di prodotto, le prime campagne pubblicitarie e le documentazioni dei contesti urbani che venivano utilizzate nelle riviste di settore. E, naturalmente, le riviste di settore sono esplose proprio in quel periodo storico. Tutto questo, per me, ha inevitabilmente a che fare con l’essere un fotografo.
DC: In merito agli aspetti architettonici dello spazio ci siamo accorti di alcune insospettabili irregolarità: per esempio il mancato allineamento delle porte o il fatto che la base della colonna centrale non sia rettangolare ma un parallelogramma. Eppure tutto questo sembra quasi passare in secondo piano rispetto ai segni/residui dell’attività che qui si è svolta. Il negozio, muri a parte, è volumetricamente vuoto. Uno spazio segnato, con delicatezza inesorabile, dal suo passato. Tu cosa vorresti fotografare? Non è sufficiente la fotografia che, in forma automatica e inconsapevole, quelle pareti e quel pavimento hanno già registrato rispetto all’attività svolta? Non è già questo negozio, con la moquette in certe aree più chiara e in altre più consumata, con le pareti che mostrano i segni degli scaffali e dei cataloghi appoggiati, con le impronte dei pannelli inquadrati dall’azione combinata di luce e polvere, una foto sufficientemente esaustiva?
MS: Sollevi una questione che mi sono posto, a un certo punto, mentre vagliavo le varie possibilità che avevo per realizzare il progetto. Mettere in mostra solamente lo spazio così com’è sarebbe risultato probabilmente già forte, esaustivo, ma sarebbe stata un’azione comunque temporanea, passeggera. Sono principalmente un fotografo, sebbene il mio lavoro stia prendendo anche altre strade, come testimonia questo progetto. Avverto però l’esigenza di documentare, in prima istanza, l’ambiente che desidero esplorare. In questo caso, ho pensato di compiere una rotazione attorno allo spazio, da più punti di vista, per raccogliere più dettagli possibile, per restituire la documentazione raccolta in una forma lineare, sequenziale al mio movimento.
DC: Nelle tue parole la ricognizione che hai compiuto sembra quasi un’azione cinematografica. Una lunga, fluida e lenta carrellata nello spazio, senza cambi di fuoco, senza un soggetto da inquadrare volontariamente. Penso sia per te quasi un’azione liberatoria registrare Pavistil senza un tema pre-determinato a cui tutto deve essere ancorato. Non avere un soggetto fisso comporta la rottura della gerarchia concettuale e visiva tra tutti gli elementi. E, a ben vedere, l’unico inevitabile soggetto è “riprendere” lo spazio da differenti punti di vista. Quindi non ci sono dei vincoli di significatività poiché, nel girato, la vista grandangolare con tanto spazio nell’immagine conta come il particolare isolato dal dettaglio. È dire, sostanzialmente, che gli spazi delle grandi superfici cariche di storia e di relazioni sono importanti come una strisciata sul muro fatta inavvertitamente dalla suola delle scarpe di un avventore casuale.
MS: Abbiamo bisogno delle fotografie per guardare le cose nel dettaglio. Quando riguardo le immagini che faccio, spesso, mi accorgo di aver registrato cose che nella realtà mi erano sfuggite. Questa è una delle qualità della fotografia: saper trascrivere dettagli che l’occhio non percepisce, mentre ci spostiamo all’interno di un contesto. Il negozio, subito dopo l’installazione, verrà ristrutturato, e tutti i suoi segni e la sua storia verranno cancellati per sempre. Io, da fotografo, mi sono occupato di condurre al visibile e trascrivere attraverso il mio passaggio l’ambiente culturale che ho di fronte. In questo processo ho utilizzato lo spazio come pretesto e invece la sua imminente scomparsa come una messa in scena del gesto fotografico. Ma, oltre a documentare il negozio, ho pensato a Pavistil come un set dove sviluppare un discorso e, successivamente, come un luogo espositivo, dove collocare i risultati delle mie operazioni in relazione allo spazio.
DC: L’articolazione teorica e il processo messo in atto, ma anche il lessico con cui ti sei espresso, riconducono ai modi del cinema, dell’architettura e dell’intervento performativo, con un approccio però sensibile al contesto. Personalmente mi sono chiesto, sin da subito, se non fossi tu il vero soggetto. Un soggetto anomalo, latente, che non è di fronte all’occhio della camera, ma sta dietro. Tu come fotografo che documenta, e, insieme, come persona/volume che si muove all’interno di un contesto spaziale più ampio, definito dai muri e dalle vetrine. Non penso nemmeno, in fondo, ti interessi più di tanto la supposta oggettività del mostrare tipica dell’immagine di prodotto, di cui parlavi prima. Sei un volume che blocca e fissa, trattenendoli, dei ritagli di quel mondo immaginifico, metaforico e antropologico che chiamiamo per convenzione Pavistil. Sei un soggetto/selezionatore che lentamente registra il volume del proprio corpo, potremmo perfino dire perfino la danza del proprio volume. Da osservatore è come assistere a una danza non dal punto di vista dello spettatore, ma dagli occhi di chi si muove…
MS: Sicuramente le cose che hai citato, cinema, architettura e performance, sono pratiche che osservo e dalle quali attingo per procedere nel mio lavoro, cercando di inserirne degli aspetti, o perlomeno di evocarle in qualche forma. Vedendomi come soggetto che pratica una danza, mi vien da dire attorno al suo apparecchio nel tentativo di produrre immagini documentali, la mente mi riporta subito al testo in cui Vilém Flusser dice che “il gesto fotografico è un movimento venatorio, in cui fotografo e apparecchio si confondono in una funzione indivisibile. Tale gesto dà la caccia a nuovi stati di cose, a situazioni mai viste prima, all’improbabile, a informazioni” [1]. Mi affascina molto questa pratica del gesto fotografico, dove uomo e macchina si fondono alla ricerca di informazioni da registrare. In questo gesto è contenuto parte del programma ideologico dell’era postindustriale, e questa condizione continua a esistere in una forma ancora più evoluta e diffusa nell’era digitale, se pensiamo che ognuno di noi quotidianamente è il funzionario di un dispositivo, come telefono o computer, con il quale interagisce per consumare, ma anche per produrre, informazioni di ogni genere. Il programma ha ampliato la sua portata. Nel tuo ragionamento mi ci ritrovo, vedo questa mia inevitabile condizione dell’essere un volume e un funzionario, confuso nel suo strumento, che cerca, con i gesti e nei gesti, di far funzionare l’apparecchio, volume anch’esso.
DC: È molto curiosa questa tua posizione accessoria rispetto alla fotografia, alla tecnica, al mezzo meccanico o elettronico e alla sua fisicità. È come se, nella caccia di cui parla Flusser, il ruolo del fotografo fosse per te quello di presenziare con il mezzo con cui cattura la preda. È come se non esistesse una relazione diretta con la preda, ma con il contesto in cui essa si muove. Non è ricercarla o stanarla, ma essere presente nell’ambiente in cui essa si palesa, per registrarne la presenza. Il progetto Pavistil forse lo testimonia, dato che lo spazio, la tua lenta esplorazione documentativa e il lento riaffiorare del tempo condensato in questo luogo sono frutto più della stasi e dell’attesa. Alla fine lo spazio del negozio non è tanto il soggetto ritratto, quanto il soggetto ospitante, registrato dal tuo processo.
MS: Pavistil, essendo stato un negozio di pavimenti, di prodotti industriali, e ospitando cataloghi e immagini che la stessa fotografia promuove, è un luogo ideale per la mia ricerca. Non solo in termini di immagini, ma anche di spazio espositivo, poiché lo spazio conteneva i prodotti che solitamente rappresento su commissione. Infatti riconduco la mia pratica al site specific e all’architettura, al disegno assonometrico. Che mi riconduce sempre all’architettura e alla costruzione di un manufatto plastico. Che a sua volta mi riconduce alla scultura e alla fotografia. Che mi riconduce poi al mio studio dell’essere un fotografo. Che, nel suo insieme, incontra e fa esperienza di tutte le precedenti pratiche, esplorandole però in termini artistici. E così, da fotografo, mi trovo a essere il committente di me stesso.
DC: La tua attitudine mi ricorda quella del signor Palomar di Italo Calvino. Non tanto nel tentativo di cogliere il profilo dell’onda o il perturbante seno nudo della donna sulla spiaggia senza creare imbarazzo, quanto invece nell’atteggiamento di presenziare egli stesso a ciò che succede nel mondo. In fin dei conti Calvino ci sta dicendo che è il fatto di essere lì in un determinato contesto, di persona e in forma conscia, che permette alla realtà di avverarsi, di accadere al di là di noi, nella prossimità del contesto in cui siamo. È questo l’aspetto più significativo. Ed è forse come dire che vedere veramente, e probabilmente anche scattare una foto, è in ultima istanza la consapevolezza di essere testimoni diretti di una vista o di un evento, e della sua attesa verità. D’altro canto, come ironicamente scriveva Duane Michals in una delle sue note, “sfortunatamente […] anche i fotografi credono nella realtà della fotografia”! [2]
MS: Pensiamo all’atteggiamento dello scienziato, o anche dell’astrologo, che attraverso l’ingrandimento visivo scoprono realtà non percepibili a occhio nudo. Lo strumento ottico permette di entrare nelle cose, di ingrandirle e renderle visibili, e quindi ci consente di scoprire che la realtà è una stratificazione di elementi che, pur sfuggendoci, esistono. Solo che non riusciamo a vederli. Pensiamo per esempio a Blow-Up di Michelangelo Antonioni: il fotografo si accorge che, ingrandendo il negativo, la pellicola aveva registrato un omicidio che stava avvenendo dietro la siepe. Un fatto che lui stesso però non aveva visto, mentre era lì sul posto: aveva assistito a un delitto, davanti ai suoi occhi, ma solamente la camera fotografica ne aveva registrato i dettagli più profondi. Credo che, più che la testimonianza di una visione, vedere attraverso la fotografia significhi restituire una prospettiva sulle cose che abbiamo osservato, curiosi del fatto che in questa prospettiva, nella sua profondità, probabilmente si saranno registrate cose che sicuramente ci sono sfuggite. È nella realtà del supporto, che si compie la mia presenza.
DC: Secondo John Berger una foto, “nel registrare ciò che è stato, sempre e per sua stessa natura riporta ciò che non si è visto. Essa isola, preserva e presenta un momento estrapolato da un flusso” [3]. Però nel tuo caso c’è una questione, apparentemente accessoria, riguardo al tuo essere “funzionario”, cioè colui che compie un’azione perché ha una funzione, un incarico assegnato. Nelle conversazioni che abbiamo avuto hai ripetuto più volte di “essere fotografo”, senza lasciare spazio ad altre possibilità. Il che, a mio avviso, ha valore per inquadrare più il tuo immaginario e la tua pratica che i risultati veri e propri. Non vorrei peccare di schematismo, ma nella mia esperienza ho constato che la pratica della fotografia è riconducibile sostanzialmente a tre polarità differenti: i fotografi-fotografi, i fotografi-artisti e gli artisti-fotografi. I fotografi-fotografi guardano il mondo in maniera fotografica e producono lavori che si materializzano con logica e materiali fotografici, non volendo mai spingersi in altri campi: trovano cioè la loro libertà espressiva nella scelta esclusiva del medium e nelle questioni che esso pone (come Martin Parr o Candida Höfer). I fotografi-artisti, invece, sono attratti dal fatto che ciò che nasce in maniera fotografica può avere ricadute altrove con forme e modalità che aprono ad altri mondi o altre sensibilità (Luigi Ghirri o Francesca Woodman). Gli artisti-fotografi impiegano invece la fotografia alla fine di un processo che è riconducibile a quello delle arti visive, dell’antropologia, dell’architettura, etc., e la foto è solo la condensazione finale del processo (Vito Acconci o Cindy Sherman). Tu, rispetto a questa pur rozza semplificazione, come ti senti? E come interagiscono gli immaginari del tuo lavoro professionale, su commissione, con la tua ricerca individuale?
MS: Per rispondere in modo esaustivo e a questa tua domanda devo fare una premessa, relativa al mio personale percorso nell’ambito delle pratiche artistiche. Nei primi anni Novanta ho iniziato a interessarmi alla pittura, praticata nei primi tempi all’Istituto d’Arte, e solo dopo ho incontrato la fotografia, che inizialmente ho impiegato per fotografare le piatte superfici astratte e per vedere come le stratificazioni della superficie stessa risultassero in un’unica immagine. Successivamente ho studiato la storia della fotografia e ne sono rimasto affascinato, cosi ho iniziato a guardare ai protagonisti a me contemporanei, per cercare di ritagliarmi il mio posto nella pratica della fotografia. Ho percorso varie strade, come fotografo-fotografo, per seguire il tuo schema, ma alla fine mi sembrava di non essere mai all’inizio di qualcosa di veramente mio, generato dal funzionamento logico delle mie intuizioni: era solamente l’emulazione di uno stile già esistente e appartenente a qualcun altro. Dopo un periodo di pausa, lavorando come professionista nell’ambito della fotografia industriale, mi sono accorto che davanti ai miei occhi avevo qualcosa di davvero interessante ed esplorabile con le logiche della pratica artistica. I set delle fotografie di arredamento, le finte finestre che utilizzavo per illuminare le ambientazioni, le dimensioni in scala reale degli spazi in stile cinematografico, nonché l’uso della fotografia per rendere credibile, grazie al suo grado di referenzialità, ciò che il committente si propone di vendere, hanno rappresentato i punti di partenza per un mio personale percorso in questo mondo. E tra l’altro ero in linea con quelle pratiche che negli anni Novanta e i primi anni Duemila sono emerse sotto il nome di staged photography. La complessità e le varie possibilità che sono contenute in questo mondo della fotografia industriale hanno rappresentato la possibilità per me di esplorare non solo le specificità della fotografia, ma anche i contesti nei quali la fotografia viene esercitata, prodotta, e veicolata. Tutto questo mondo è un mondo plastico, ricostruito, immaginato e progettato, dove tantissime professioni sono chiamate a confrontarsi per restituire e produrre una precisa informazione atta alla promozione, mediante la strategia persuasiva della pubblicità. La fotografia, ma anche il suo contesto, gli strumenti di diffusione della fotografia stessa, e tutto questo mondo plastico che gravita intorno sono utili per rendere reale il sistema economico basato sulla costante crescita del prodotto interno lordo. Per rispondere alla tua domanda, osservando il mio percorso credo di essermi indirizzato da fotografo-fotografo verso l’artista-fotografo. Attraverso varie pratiche tento di esplorare il complesso contesto del sistema fotografico, che, nella sintesi concettuale della fotografia, si manifesta e si rappresenta.
[1] V. Flusser, Per una filosofia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano 2006, p. 48.
[2] D. Michals, Real Dreams. Photostories, Addison House, Danbury 1976. È significativo riportare per intero la nota del fotografo americano, contenuta all’interno di un’opera: “La gente crede nella realtà della fotografia, ma non in quella della pittura; il che dà un enorme vantaggio ai fotografi. Sfortunatamente, però, anche i fotografi credono nella realtà della fotografia” (T.d.A).
[3] J. Berger, Understanding a Photograph, Penguin, Londra 2013, e-book (T.d.A).