Michele Parisi

saggio, Quaderni ADAC
MART Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto
dicembre 2019
ISBN 978-88-95133-53-9

La pittura come salvezza
Daniele Capra




Pratica e reiterazione
Il lavoro di Michele Parisi dimostra in maniera incontrovertibile quanto nell’arte la pratica del fare possa condurre alla teoria. Fu questo il processo attuato dai coniugi Becher, i quali, dopo aver passato anni a fotografare architetture industriali e abitazioni nell’area della Ruhr con dei criteri di standardizzazione del soggetto, compresero come quelle immagini non fossero scatti a sé stanti, quanto invece elementi di una tassonomia di grado superiore [1]. Similmente Parisi, che ha avuto una grande consuetudine con il mezzo fotografico sin dalla sua adolescenza (sia per la sua ricerca personale che per le esperienze di collaborazione in laboratori fotografici), ha messo appunto una ricerca che è nata dalla reiterazione, dal saper fare e dall’essere in grado di controllare ogni singolo passo del processo. Dominare ogni aspetto, ma anche dimenticarsi di essere in grado di farlo per non essere semplicemente un virtuoso, ha infatti permesso all’artista di non concentrarsi sugli aspetti tecnici, ma di calibrare una sapida struttura di pensiero, lineare e personale.
La sua ricerca, che ha anche una fase fortemente pittorica, è infatti una pratica, ossia un processo che nasce dalla reiterazione di gesti, tempi, punti di vista, composizioni. Si può intuire cioè come il suo indagare – che spesso ha a che fare, anche concettualmente, con il disegno – nasca dal ripetere le azioni fino a quando non si manifesta il contenuto, quando cioè un soggetto o un dettaglio si rivela come necessario, ineludibile. È uno svelamento, un’apparizione, un manifestarsi di qualcosa che prima non c’era e che abbisogna di essere fissato perché non si perda nell’indistinto.


La ricerca del soggetto
La ricerca condotta dall’artista nasce e si sviluppa, nelle sue varie articolazioni, a partire da un inesausto desiderio di conoscere, descrivere e riscrivere la realtà per come essa si presenta di fronte ai nostri occhi. Vedere i fenomeni, registrarli con un opportuno dispositivo tecnico, ordinarli e successivamente ricomporli in una forma personale pittorica è una modalità operativa che eredita, in parte, gli aspetti di mimesi propri dell’arte antica, sebbene da questa si differenzi rispetto all’assunto della corrispondenza fedele alla fonte. La natura, il paesaggio, il corpo umano e, più in generale, la realtà non sono cioè per Parisi dei modelli ineguagliabili verso i quali mostrare ossequiosa dedizione, quanto invece dei fornitori di stimoli visivi che l’artista seleziona nella sua continua esperienza da osservatore: sono punti di partenza di un percorso che prevede poi un processo di assimilazione, sviluppo e modellazione individuale.
L’attitudine di Parisi a reperire immagini è assimilabile antropologicamente a quella dell’uomo raccoglitore, ossia a colui che conduce a sé, nel suo deambulare di homo videns, ciò che è visivamente significativo, senza doverlo inseguire o cacciare. Non c’è ansia, adrenalina, bensì la calma necessaria per realizzare un prelievo di una porzione di realtà, valutarne la significatività e decidere successivamente se impiegarla o meno in un processo più ampio di elaborazione. In tale operazione di selezione e campionamento del visibile non è secondaria la codificazione dei generi pittorici, e in particolare le categorie del paesaggio, del ritratto e della natura morta, che, sebbene mescolate fino talvolta a confondersi, permangono come minime griglie interpretative nei confronti del soggetto. Il processo di manipolazione attuato successivamente grazie alla pittura induce a pensare come l’interesse nei confronti del soggetto sia non rivolto al suo valore iconografico tout court, bensì alla possibilità di manipolazione e trasformazione che esso possiede. Per Parisi un soggetto deve cioè poter garantire la libertà necessaria per deviare dal suo stesso contenuto originale, in modo tale che sia consentita un’appropriazione identitaria da parte dell’autore e che il processo creativo sia in grado di produrre ulteriori narrazioni personali. Sarà la pittura, in particolare, a costituire il punto di snodo strumentale, a fornire cioè l’innesco operativo capace di condurre ad altri lidi le potenzialità e le aspettative che quelle immagini generano.
È lecito quindi affermare che Parisi, ovviando l’ortodossia rappresentativa propria della fotografia, se ne discosti liberamente, generando quel senso e quei significati che prima non sarebbero potuti esistere. Concettualmente il cambiamento di direzione rispetto all’immagine-fonte ricorda in molti aspetti ciò che succede nella fisica epicurea grazie al clinamen: gli atomi, infatti, “se non si prestassero a deviare, cadrebbero tutti come gocce di pioggia nel vuoto più profondo, non si genererebbero scontri né urti fra gli elementi, e la natura non avrebbe creato mai niente” [2]i. È la deviazione dalla verticalità (grazie all’intervento della pittura) che permette agli atomi (cioè alle immagini originali) di creare quegli elementi (le opere) che prima non c’erano.
Solo un cambio di direzione, quindi, permette all’artista di giungere alla meta prefissa, portatrice di un valore nuovo prima assente.


Prelievi, calchi e presentazioni
La pratica di Parisi è caratterizzata dalla presenza strumentale di più media, ciascuno dei quali è impiegato dall’artista con modalità e motivazioni differenti. Il suo lavoro è anfibio, poiché egli agisce a confine tra fotografia e pittura, entrambi ugualmente presenti nell’opera finale. Il processo creativo messo a punto dall’artista è costituito dalla stratificazione di due prassi operative, che avvengono con una successione temporale fissa. Ricorrendo al foro stenopeico o alla fotocamera Parisi realizza innanzitutto delle fotografie in bianco e nero del soggetto, che vengono poi stampate in camera oscura su una tela opportunamente trattata con gelatina fotosensibile. Successivamente l’artista interviene su quell’immagine con grafite, fusaggine, ma soprattutto con la classica pittura a olio, modificando, alterando o cambiando i dettagli, le luci, la gamma cromatica. In questo modo registrazione fotografica e pittura coesistono, la prima come prelievo dal flusso del tempo e la seconda come sedimento che testimonia il suo languido estinguersi (ossia come res derelicta).
I prelievi che attua Parisi non si discostano dall’idea di Susan Sontag della fotografia come campionamento di un generico tempo passato, che si trasforma, grazie alla tecnica di registrazione, in oggetto documentale: esso diventa cioè uno degli elementi costitutivi di un archivio, che sono però, proprio come scrive l’intellettuale americana, “inviti inesauribili alla deduzione, alla speculazione e alla fantasia” [3]. Come spiegare, altrimenti, la necessità dell’artista di fantasticare sovrapponendo la pittura all’immagine fotografica, deviando del tutto dal suo basilare valore documentale? Facciamo però un passo indietro e occupiamoci della natura del prelievo realizzato dall’artista in forma fotografica, con una modalità che si serve cioè della luce. La sua volontà è quella di trattenere su di un supporto fotosensibile un’impronta, una traccia che conservi cioè il segno di un giardino, un paesaggio o delle mani intrecciate. Più propriamente è un calco (ossia un negativo), poiché esso abbisogna di un ulteriore processo di riversamento su altra materia per essere di nuovo positivo, cioè nella condizione di corrispondere esattamente alla forma iniziale. Quello che Parisi realizza fotograficamente è, dunque, una copia complementare di una porzione di realtà, la quale, opportunamente rovesciata e trasferita, restituisce quel ritaglio originale. Ma l’artista, sentendone i limiti intrinsechi, ha l’urgenza di aggirare tale compia, di riprocessarla, sottoporla a ulteriore lavorazione.
L’opera risulta così l’esito di una scrittura su una scrittura – la prima in forma fotografica, la seconda pittorica – in un processo che aggira sia l’idea di mimesi che quella della supposta originalità dell’opera stessa rispetto al contesto-mondo. Come acutamente suggerito dall’artista in una recente conversazione, “l’opera finale non è tanto una rappresentazione di qualcosa, quanto invece la sua presentazione”. C’è evidentemente in questo l’idea di sopravanzare le istanze più tradizionali dell’agire artistico per rendere l’opera un dispositivo autosufficiente, un ente che esiste cioè in piena autonomia, indipendente e sovrano nelle sue funzioni, senza troppi legami parentali con ciò che a esso pre-esiste. In questo processo Parisi sembra comportarsi come l’uomo che, nel mito della caverna di Platone [4], riesce a liberarsi dalle catene e a capire l’imbroglio da cui è tenuto prigioniero. Nella narrazione del filosofo greco l’uomo riesce ad accorgersi del carattere illusorio delle proiezioni sul fondo della caverna e, dopo essersi con difficoltà abituato alla luce, decide di conoscere direttamente il reale. Similmente possiamo affermare che Parisi sceglie di non affidarsi alle tracce che la realtà deposita (sul supporto), ma cerca invece di cogliere l’idea (l’eidos), con un gesto individuale di forte volontà. Alla semplice registrazione di una luce che incide un’ombra, l’autore preferisce quindi un’esperienza conoscitiva, diretta e profonda, con ciò che non è semplice apparenza ma è invece reale.


Riscritture e rallentamenti
Ripassare a olio un’immagine che già compiutamente esiste e non abbisogna sostanzialmente di altro, emendarla, ribilanciarne i toni, nasconderne o aggiungerne dei dettagli,trasformarla attivamente in altro, equivale a proiettarla geometricamente fuori di sé e del proprio perimetro di significati, alla ricerca di nuovi possibili sensi. È un’operazione che è sia concettuale, per le fasi antitetiche di smarrimento/rinvenimento che il processo di riscrittura attiva, che ideologica, per la scelta di un processo manuale che fa della lentezza uno degli elementi chiave. Parisi, infatti,è interessato a riplasmare in forma personale (e, per molti aspetti, a-temporale) la narrazione sottesa all’immagine e, insieme, a decelerare il flusso degli eventi per ricondurlo a una dimensione metafisica: i soggetti vanno in stasi, progressivamente rallentati dalla stesura della pittura e dalla stratificazione cromatica, e diventano in questo modo fissi e densi come oggetti, come cose inanimate che attendono in silenzio.
Riscrivere un testo (o un’immagine) equivale a discutere e rinegoziare i suoi elementi caratteristici rispetto alla sensibilità, all’ideologia, allo stile, alla grammatica, al tempo, alle idiosincrasie e agli amori dell’autore: è un atto di rigenerazione in cui, come diceva Carmelo Bene rispetto alla sua manipolazione dei testi teatrali, “si spegne una flebile fastidiosa lampadina per accendere finalmente la luce” [5]. Ma quella di Parisi non è un’attività in opposizione al preesistente status del contenuto visivo (come capitava genialmente ma ambiguamente in Bene), quanto invece una sua evoluzione necessaria verso la forma finale, una metamorfosi in cui si registra un cambiamento di stato: è un balzo morfologico, un progresso a una dimensione altra in cui ogni dettaglio, sorpassatala dimensione dell’hic et nunc tipico del prelievo fotografico, diventa parte di un racconto più ampio. In questo passaggio avviene infatti un salto concettuale da una dimensione precisa e determinata, tipica della cronaca, a una forma atemporale propria delle narrazioni, della poesia e del sacro. Questa modalità è raggiunta dall’artista grazie al processo pittorico, mirato a rimodellare dal punto di vista fisico ed emotivo l’immagine, a trasformarne i dettagli con il desiderio di far rallentare lo sguardo.
Progressivamente si ferma, infatti, l’occhio, e si appoggia su quello che non c’è, sull’atmosfera brumosa di un giardino di una villa settecentesca, sul sole che bagna di luce un viale cittadino alberato o sulle ombre che indugiano, come gatti assonnati, su di una rovina archeologica. Diventano immagini scariche, metafisiche, da contemplazione, perché distanti dalla velocità e dal flusso incessante in cui scorre la nostra esistenza: anzi, a questa velocità di oppongono offrendo allo sguardo margini di distensione, di quiete, di respiro rallentato, come icone della tradizione ortodossa che invitano ad abbandonare la dimensione quotidiana per proiettare, grazie all’immagine, l’osservatore altrove.


Malessere
Con la sua opera Parisi è interessato a ricercare la stasi, ossia qualcosa di fermo e monumentale (nel senso non tanto della grandezza o della maestosità, ma della memoria e del ricordo) che sia porta di accesso ad altri spazi, ad altri luoghi [6], a un tempo che forse nemmeno esiste. L’artista mira cioè a straniare l’osservatore, a interrogarlo con domande gentili ma inopportune, alle quali egli non sa rispondere, perché non ha chiaramente in testa cosa dire. O forse perché, nella malinconia contemplativa che la stasi dello sguardo induce, nemmeno ha senso trovare risposte, se esistono. Meglio allora perdersi, fare un passo indietro, godersi l’immagine. Quel dolce e suadente malessere che, a chi guarda, restituisce bellezza.




[1] In una conversazione che ebbi con Hilla Becher nel 2009, in occasione della mostra presso il Museo Morandi a Bologna, l’artista mi raccontò di come, contrariamente al pensiero comune, la fotografia concettuale sua e del marito fosse nata in forma induttiva e non deduttiva, poiché era stata la reiterazione della prassi a creare la teoria e non viceversa.
[2] Lucrezio, De rerum natura, II, vv. 221-224, traduzione dell’autore.
[3] S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine della nostra società, Einaudi, Torino 2004, p. 26.
[4] Il mito è narrato da Platone nel VII libro de La Repubblica.
[5] C. Bene, in E. Ghezzi, Cose mai dette. Fuori orario di fuori orario (librorale), Bompiani, Milano 1996, p. 161.
[6] Si veda a questo proposito il primo capitolo di V. I. Stoichita, L’invenzione del quadro. Arte, artefici e artifici nella pittura europea, Il saggiatore, Milano 1996. Lo studioso rumeno argomenta come il quadro sia una porta, uno squarcio nell’architettura delle pareti che conduce nuove viste/visioni all’interno dell’ambiente domestico della casa.