Nebojša Despotović
Tutte le nostre vite
Galleria Civica, Trento
luglio — ottobre 2025
In silenzio nel giardino
Gabriele Lorenzoni, Daniele Capra
Finché quella donna del Rijksmuseum
nel silenzio dipinto e in raccoglimento
giorno dopo giorno versa
il latte dalla brocca nella scodella,
il Mondo non merita
la fine del mondo.
Wisława Szymborska [1]
Verso nuove fonti
Nel nucleo di opere inedite presentato da Nebojša Despotović in occasione della mostra alla Galleria Civica, si manifesta la progressiva sedimentazione di un nuovo capitolo della sua produzione artistica. La pandemia Covid-19, con il suo portato a livello sociale, personale e psicologico fatto di isolamento e restrizioni alle libertà personali, di sofferenza e di divisione, ma anche di solidarietà, di sospensione e di ridefinizione delle urgenze e delle reali necessità, ha segnato un solco netto nella pratica pittorica e nella poetica dell’artista. Prima di questa cesura Despotović si affidava al gigantesco archivio di immagini in suo possesso – frutto di un lavoro di raccolta, selezione e sedimentazione lungo oltre un decennio – che attingeva alle fonti più disparate, dalla letteratura a internet, da brani di realtà anonimi fotografati dall’artista a ritagli stampa di fatti di cronaca, da citazioni della storia dell’arte a icone massmediatiche. Ora invece l’artista pone nuove fondamenta alla base delle sue opere, spostando l’attenzione sulla realtà quotidiana, sul vissuto e sull’esperienza diretta e personale.
Diario di famiglia
L’abbandono dell’impiego di fonti iconografiche esterne – scelte essenzialmente per il proprio valore visivo, estetico o per gli immaginari che veicolano – a favore di soggetti conosciuti e di situazioni vissute in prima persona, segna un radicale cambio di direzione tanto per Despotović quanto per la sua stessa ricerca pittorica. Tale svolta segna la mutazione della condizione antropologica del pittore, la cui opera registra ora non più il flusso di un fiume esterno osservato, che sta al di fuori di sé, ma le stesse acque in cui l’artista è immerso. Nella maggioranza dei casi i dipinti degli ultimi anni hanno infatti smesso di essere l’elaborazione di un ‘contenuto visivo’ che l’artista ha ricevuto passivamente da spettatore, attraverso un medium che lo ha trascritto e veicolato, per testimoniare invece dei pezzi di vita realmente vissuti da Despotović. È avvenuto così un mutamento radicale: a un approccio caratterizzato dalla distanza fisica e dalla mediazione di un’immagine proveniente dal mondo esterno, si è sostituito un metodo basato sulla vicinanza e sulla partecipazione diretta a un contesto. L’artista non dipinge più quindi ‘quello che ha visto’, bensì ‘quello che ha vissuto’: la fonte, che fa da stimolo generativo, non è quindi di natura esclusivamente visiva ed eterògena, ma al contrario personale, esperienziale e autogena.
La centralità dell’esperienza in prima persona ha prodotto anche un cambiamento nei confronti dei soggetti delle sue opere, nelle quali la figura umana rimane centrale. Non sono più personaggi generici con un’identità sconosciuta e fittizia, ma i membri della propria famiglia (come documentato dalla mostra di Trento), gli amici e la comunità di artisti che vivono a Venezia. Sono persone che Despotović conosce e con le quali è in relazione nella vita quotidiana: soggetti di cui conosce la fisicità, il comportamento, il linguaggio verbale e corporeo, il vissuto e i desideri. Tutte le immagini di partenza delle opere più recenti sono infatti fotografie scattate dall’autore con il proprio telefono, in situazioni reali vissute direttamente, senza che le persone siano in posa: sono prelievi di realtà estrapolati dalla vita di tutti i giorni, che vengono inizialmente archiviati dall’artista, e poi, qualora si rivelassero significativi dal punto di vista pittorico, selezionati e rimaneggiati come fonti per le sue opere. Il dipinto che ne risulta non è in buona sostanza una semplice trascrizione di ciò che è avvenuto nel contesto originale, ma è il frutto di un processo in cui la sollecitazione iniziale viene ‘digerita’ e poi elaborata da Despotović, grazie alla sua sensibilità e al suo linguaggio. L’opera non è così un semplice dispositivo che si aggiunge in forma additiva alla vita dell’artista, ma la testimonianza di una relazione, in cui il soggetto pittorico è anche una persona con cui si è stati al mondo insieme, condividendo un contesto, delle parole, dei ritagli di spazio e di tempo.
Psicologia, soggetto ed esecuzione
Negli ultimi anni la centralità di questa relazione e la maturità espressiva raggiunta da Despotović hanno fatto diventare progressivamente sempre più centrali gli elementi psicologici nella sua pratica pittorica. Tale tendenza ha assunto una doppia valenza: nei confronti del soggetto stesso, che ora ha un’identità precisa, un nome e un cognome, e anche nei riguardi dell’opera, la cui esecuzione è caratterizzata da uno sviluppo autonomo e significativo.
Da un lato è infatti divenuto centrale lo studio della persona rappresentata, la cui analisi si è allargata temporalmente al di fuori dei limiti dell’ordinario, grazie alla continuità della frequentazione o della relazione familiare. Il soggetto ha smesso di essere un semplice elemento esterno e distaccato, diventando ora parte di un processo più ampio, basato sulla condivisione di un medesimo contesto da parte dell’artista. L’altro dipinto sulla tela è, cioè, l’esito delle azioni di scandaglio psicologico portate avanti dall’autore: è materia calda e viva di cui vengono sondate la complessità e le contraddizioni, per mostrarne le sfaccettature più eterogenee e significative.
Ma, dall’altro lato, è diventata centrale quella che potremmo definire la ‘psicologia dell’esecuzione’, ossia l’insieme di accadimenti, di eventi fisici e di condizioni mentali attraversate dal pittore durante la realizzazione dell’opera. L’esecuzione di un dipinto non è la materializzazione di un progetto programmato e già definito, ma un atto aperto di discussione e confronto con la stessa opera, che va immaginata come dotata di una propria particolare individualità. Dipingere è infatti per Despotović anche una continua emersione, a favore del mondo, dei propri processi di relazione con l’opera stessa: eseguire un dipinto è, dal punto di vista psicologico, una lotta corpo a corpo in cui il pittore, nella solitudine del proprio studio, combatte, si ferisce, schiva e incassa dei colpi, o affonda i propri, in un confronto che è interiore ed essenzialmente mentale.
In interiore pictura habitat veritas [2]
La ricerca della profondità psicologica – nei confronti sia del soggetto che del dipinto – coincide in Despotović con la ricerca di sé, grazie al proprio linguaggio che permette al processo introspettivo di sedimentarsi sulla superficie pittorica. La pittura è per l’artista un sismografo che registra il proprio rapporto con il mondo e i propri tormenti, grazie a una figurazione espressionista e anti-descrittiva, vibrante e inquieta, che talvolta si raggruma fino a diventare materica, mentre altre volte si diluisce fino a liquefarsi, anche se non mancano episodi di carattere gestuale e istintivo. La sua tavolozza ha colori scuri e pastosi, dalle tinte fortemente anti-naturalistiche, che spesso conferiscono alle persone rappresentate tratti assorti e malinconici, che si riverberano cromaticamente anche sui contesti e sugli ambienti in cui le figure sono inserite. In base alle esigenze espressive la superficie delle opere non è uniformemente trattata con l’imprimitura, mentre su ampie porzioni il colore è mescolato a polvere, limature di vetro o trucioli di legno. Questo consente alla superficie di essere irta, scabra e vibrante allo sguardo, e talvolta tormentata da segni, escoriazioni o incisioni fino al punto di abradere la tela o penetrare nel legno. La pittura è per Despotović uno strumento intellettuale e psicologico per esplorare la sua personale identità, attraverso il linguaggio, e far emergere la propria insopprimibile ed esistenziale verità in forma visiva. Tale modalità ricalca quanto Pavel Florenskij, ne Le porte regali, attribuiva all’arte sacra, in cui “ogni pittura ha lo scopo di orientare lo spettatore verso una realtà oltre i limiti dei colori e della tela percepiti dai sensi. E dunque l’opera pittorica, esattamente come i simboli in generale, viene a condividere con loro la caratteristica ontologica fondamentale – l’essere ciò che simboleggiano” [3]. Per l’artista dipingere è così, in ultima istanza, una forma di ‘conoscenza’ e ‘traduzione’ di una realtà, quella del proprio inconscio e dei propri abissi, altrimenti non manifesta.
Un atlante asistematico
A partire dal 2020 Despotović si è impegnato nella costruzione di un vero e proprio atlante visivo della propria intimità, un diario pittorico che si muove con discrezione tra la propria famiglia attuale, in Italia, i territori fragili della memoria della propria famiglia di origine, a Belgrado, e i paesaggi mutevoli della coscienza storica, segnati dalle guerre dei Balcani e dalla dissoluzione della Jugoslavia. Il nucleo tematico di opere che costituisce Tutte le nostre vite rappresenta un continuum emotivo e intellettuale che racconta il passaggio – non lineare – tra lo smarrimento per la perdita della madre e la vita condivisa con la propria famiglia. Questo doppio asse temporale e affettivo – passato e presente, madre e figlie – non viene rappresentato attraverso un razionale confronto tra epoche e situazioni ben delineate, ma grazie a una stratificazione complessa di identità plurime e di sguardi sul mondo. Si tratta infatti di una mappatura libera e asistematica dei propri affetti, in cui il criterio aggregante non è descrittivo e logico, quanto invece l’esito del procedere ‘a sentimento’, zigzagando, e cercando di sviscerare le relazioni e i propri ricordi: è, cioè, un atlante non monocratico e senza una legenda stabile e univoca, che si compone e poi si dispiega sotto i nostri occhi attraverso continue autoesplorazioni, ripensamenti e moltiplicazioni dei punti di vista.
Uno luogo emotivo e identitario
La cifra stilistica di Despotović – caratterizzata da una pittura inquieta nella costruzione compositiva – trova qui un’espansione tematica potente, che si fa interrogazione costante sul confine tra il pubblico e il privato. Lo spazio della casa, della relazione domestica, del corpo amato e anche perduto, diventa lo scenario privilegiato da cui partire per osservare – e interrogare – il mondo. La casa è un’ossessione, e probabilmente un fantasma, che ha inseguito Despotović nel corso della sua maturità, sin dal trasferimento da Belgrado a Venezia, per motivi di studio, all’inizio degli anni Duemila. Più case a Venezia, fino al matrimonio; poi il trasferimento a Berlino in diverse abitazioni; in seguito, il ritorno a Treviso e lo spostamento in più luoghi nella città veneta. In questi movimenti ripetuti l’unico punto fisso e immutabile è stato la casa della madre a Belgrado, che è stata abitata fino a quando lei è venuta a mancare a causa di una malattia incurabile. In ogni situazione si è presentata la necessità, da parte dell’artista, di creare un contesto identitario, riadattando gli spazi e il mobilio in base alle esigenze personali, al crescere della famiglia e alla necessità di avere uno studio per lavorare in tranquillità. La casa rappresenta per Despotović il luogo necessario per sviluppare le proprie relazioni affettive, ma inevitabilmente, dal punto di vista psicanalitico, lo spazio emotivo in cui è stato figlio e nel quale ha scelto di essere padre: è la propria [4], nella quale ha ricevuto la propria posizione nel mondo, che poi ha scelto di trasmettere a qualcun altro.
Lo spazio e il tempo del possibile
Nel cuore del lavoro di Despotović vi è una riflessione sulla casa non solo quindi come luogo fisico, ma anche come dimensione originaria della percezione dell’identità e della coscienza. Gaston Bachelard osserva come “la casa è il nostro angolo del mondo, è, come è stato spesso ripetuto, il nostro primo universo. Essa è davvero un cosmo, nella piena accezione del termine” [5]. È qui, nella casa vissuta e talvolta abbandonata, occupata e lasciata, che si formano le prime immagini del tempo e dell’amore, che si incide la prima topografia dei sentimenti. Despotović non rappresenta la casa in modo didascalico o illustrativo: la evoca, la scompone, la interroga. Mostra gli ambienti impiegando una prospettiva ondivaga, disegna gli arredi senza descriverne i dettagli e dispone i corpi dei suoi famigliari sulla tela senza curarsi della loro reale collocazione spaziale: la casa è concettualmente il luogo in cui pittoricamente si manifesta il possibile.
I volti delle figlie a cavallo tra infanzia e adolescenza, le presenze della madre e della moglie, e le sagome familiari insieme agli elementi di arredo emergono come presenze inafferrabili in uno spazio senza tempo. L’artista non mette in scena un semplice ricordo, ma la tensione continua tra ciò che resta e ciò che sfugge. La pittura diventa così una forma di testimonianza, un luogo dove resistere all’erosione del correre delle giornate, delle settimane, degli anni. Il tempo non è elemento accessorio nella poetica dell’artista, ma assolutamente centrale e si riverbera in varie forme nelle opere, anche nella prassi esecutiva: “Il tempo è fondamentale, non solo quello sospeso che cerco di mettere in scena nelle opere, ma anche quello concreto, famigliare, quello lavorativo che impiego per realizzare l’opera, insieme a quello che lascio sedimentare tra un gesto e l’altro. Ci sono momenti in cui non faccio nulla, ma solo osservo. Per me, lo spazio bianco, il vuoto, è parte integrante dell’opera”.
Un’identità interrotta
L’assenza della madre, percepita come una perdita personale ma anche come un trauma culturale – per l’impossibilità di dare seguito a un’identità culturale e sociale interrotta con la migrazione dell’artista da Belgrado a Venezia – si riverbera nell’intero corpus delle opere. La madre non è solo una figura biografica, ma la matrice simbolica che tiene insieme i frammenti di un’identità diasporica, nella quale per Despotović è sempre più difficile delineare in forma netta e precisa la propria individualità. La famiglia, in questo senso, diventa il luogo dove tale negoziazione si fa visibile, concreta. L’artista vive infatti in un continuo dibattersi tra differenti appartenenze, anche estinte: la Jugoslavia, la Serbia, l’Italia, la Germania e ancora l’Italia. Il cambiamento, alimentato sia dallo scorrere del tempo che dal susseguirsi dei luoghi vissuti, delle lingue parlate, delle mentalità e delle culture incontrate, continua a generare sovrapposizioni e mescolamenti. In questa complessità risulta arduo per l’artista definire se stesso: come, oltre un secolo fa, aveva intuito Eugenio Montale rispetto alla nostra condizione moderna, Despotović può dire solo ciò che non è, ciò che non vuole [6].
Passati e memorie da trattenere
Albert Camus, riflettendo sull’eredità delle generazioni, nel discorso di accettazione del Premio Nobel, affermava che “ogni generazione, senza dubbio, si crede destinata a rifare il mondo. La mia sa che non lo rifarà. Il suo compito è forse più grande: consiste nell’impedire che il mondo si distrugga” [7]. In queste parole si può leggere l’eco di una responsabilità che Despotović assume nel gesto artistico: non rifare il mondo, ma salvarne un frammento, trattenere un volto, una voce, una stanza, preservandoli dalla catastrofe dell’indistinto e dell’oblio.
L’intimità familiare, in questo senso, non è mai separata dallo sfondo storico. Le opere di Despotović sono, infatti, popolate da una tensione che rimanda costantemente all’esterno: il dramma dei Balcani negli anni Novanta, la condizione diasporica, la crisi del presente. Si ha infatti l’impressione che l’artista sappia fare, per dirla con Marc Bloch, “astrazione del tempo” [8]. Le sue opere sono come il tempo della storia, che, come postulato dall’autore de Il mestiere dello storico, “è il plasma in cui nuotano i fenomeni e quasi il luogo della loro intelligibilità” [9]. In questo senso il passato non è un luogo distante, dove risiedono solo i fatti eccezionali, ma è il deposito di tutte le vite, anche quelle anonime, che hanno plasmato il mondo così com’è. La pittura, in questo contesto, diventa il luogo della connessione: tra la vita vissuta e quella narrata, tra perdita e testimonianza, tra memoria individuale e storia collettiva. Ecco allora che Despotović non dipinge solo la propria vita: egli interroga, attraverso la propria esperienza, le condizioni di visibilità di ogni possibile soggetto che vive nel tempo presente. Chi siamo, oggi, quando ricordiamo? A chi parliamo, quando raccontiamo noi stessi? Perché ricordiamo alcuni eventi e alcune sensazioni, mentre altri li dimentichiamo?
Storie che ci riguardano
L’intero percorso espositivo si configura come un gesto di attenzione e di cura: verso la propria storia individuale, verso il presente, verso il futuro e verso l’osservatore. Despotović dipinge per comprendere ed elaborare, ma anche per preservare ciò che sente. Le sue opere non sono dichiarazioni affermative, ma domande aperte rivolte anche a noi e alla nostra esistenza. La pittura diventa un linguaggio necessario per trattenere ciò che fugge e per costruire – attraverso l’immagine – un contatto che resista al vuoto dell’indistinto e al peso insostenibile del tempo.
In un’epoca in cui l’esperienza privata è spesso banalizzata, messa in scena o consumata in superficie, Despotović restituisce allo spettatore uno spazio di ascolto e riflessione. Lo fa con profondità e onestà intellettuale, costruendo un ponte tra la vulnerabilità dell’essere umano e il flusso impietoso della storia: sono la sua vita, la sua storia personale, le sue relazioni a costituire ciò che viene esposto al nostro sguardo, senz’alcun narcisismo o esibizionismo emotivo. L’artista candidamente condivide con noi le questioni che lo tormentano, spingendoci – attraverso il suo linguaggio e la sua narrazione cruda ed essenziale – a occuparci di questioni che forse vorremmo pavidamente ignorare. Chi trova agevole parlare della morte di una persona cara che ci ha abbandonato o di ciò che resterà alla fine della nostra vita, quando di noi non rimarranno che le rovine? Nel silenzio carico delle sue tele, ognuno può ritrovare qualcosa di sé: una voce amata, un volto scomparso, una stanza lasciata indietro. In questo modo l’artista trasforma la propria biografia in un’offerta universale, ricordandoci che ogni storia personale è, in fondo, una storia del mondo.
Hortus conclusus
Il cuore della mostra ospita una monumentale opera site-specific: il polittico Nel giardino della mia vita, realizzato da Despotović nei mesi precedenti l’inaugurazione dipingendo su quattro tele di grandi dimensioni la figlia maggiore Mia, la moglie Erica e la madre, nella vecchia casa di Belgrado in un momento di assorta malinconia, mentre la minore Emma si presta chiassosamente a suonare una trombetta, come un Fauno che dà la sveglia agli animali del bosco. Le quattro figure sono dipinte in forma nervosa e incompleta, con colori che oscillano tra il grigio e il nero, mentre il contesto è semplificato e reso dinamico prospetticamente dalla presenza di più punti di vista. Il mobilio dell’appartamento è semplificato ma ritmicamente ben delineato, mentre sul pavimento è collocato un tappeto che ha la funzione di unire gli elementi della composizione. Colpisce invece sulla destra il letto sfatto, che pare abbandonato a se stesso e forse indica l’assenza di una persona nella scena (l’autore? Il padre?). Il titolo allude alla presenza, in un ambiente chiuso e protetto, di quattro figure centrali nella vita dell’artista, ospiti di un vero e proprio hortus conclusus domestico, in cui le persone si presentano all’osservatore con il proprio carattere, la propria fisicità e la propria psicologia.
Un giardino che deforma e rivela
L’opera può essere letta alla luce del concetto di eterotopia introdotto da Michel Foucault nella sua conferenza del 1967, Des espaces autres (“Di altri spazi”) [10]. Le eterotopie sono spazi reali, esistenti ma ‘altri’, capaci di funzionare come specchi deformanti della società. Diversamente dall’utopia, che non ha luogo, l’eterotopia esiste concretamente, pur presentando caratteristiche uniche: è presente in ogni cultura con forme diverse, può mutare funzione nel tempo, contiene spazi molteplici e incompatibili, ed è spesso legata a rotture del tempo ordinario. Foucault stesso identificava il giardino come la prima eterotopia della cultura occidentale, definendolo “la più piccola particella e insieme la totalità del mondo. Il giardino rappresenta fin dalla più remota antichità una sorta di eterotopia felice e universalizzante” [11]. Così come il giardino persiano era un’immagine miniaturizzata del cosmo, allo stesso modo il giardino figurato di Despotović suggerisce un approccio alla vita non come un continuum ordinato, ma come un luogo intimo e molteplice, un’eterotopia in cui si sovrappongono tempi (infanzia, presente, futuro immaginato) e affetti contraddittori (gioia, perdita, desiderio, nostalgia), generando immagini che altrove non potrebbero coesistere.
Gesti politici e poetici
In questa prospettiva, l’opera diventa un autoritratto interiore, uno spazio mentale ed esistenziale dove l’esperienza si riorganizza secondo un principio affettivo anziché cronologico, un archivio simbolico di immagini, un gesto di cura e, infine, una forma di resistenza contro l’ordine politico-economico e la sua enfasi su efficienza, performance e guadagno. Coltivare “il giardino della propria vita” si configura quindi come un atto anti-temporale e anti-narrativo, un rifugio dove sostare, riflettere e ricordare. Funzionando come uno specchio affettivo, il giardino raccoglie ciò e chi ci ha toccati, anche se il mondo lo ha dimenticato, e come uno specchio critico, che rivela ciò che manca nel mondo esterno come cura, bellezza e lentezza. L’opera trascende la semplice metafora per affermarsi come un gesto politico e poetico: sottrarre un frammento di sé al tempo collettivo per restituirgli forma, voce e significato, trasformando la memoria personale in un paesaggio domestico in cui lo spettatore può abitare visivamente ed emotivamente, sentendosene parte. Si crea così un tempo sospeso, in cui il ricordo riapre le ferite subite ma innesca anche la speranza di un possibile inizio. In un’epoca che impone velocità, coerenza e visibilità, il polittico Nel giardino della mia vita di Nebojša Despotović è un invito alla discontinuità, alla discrezione e alla verità dell’esperienza individuale vissuta, un’eterotopia dell’anima da plasmare, coltivare e narrare attivamente. Possiamo postulare un parallelismo improprio con un altro giardino immaginato come rifugio e luogo di cura, quello di Derek Jarman in The Garden. Girato nella sua casa di Prospect Cottage a Dungeness, nel Kent, il film riflette il mondo interiore di Jarman, in cui sono intrecciate immagini oniriche, religione, identità queer e natura in un montaggio libero e visionario. La piccola abitazione, con il suo giardino inospitale, sferzato dal vento salmastro e con vista sulla locale centrale nucleare, divenne per lui rifugio, laboratorio creativo e atto di resistenza e rigenerazione. In The Garden, il giardino, sistemato con caparbietà e fatica, si fa incarnazione dell’intimità del regista e della potenza del suo sguardo poetico e politico: “Il giardino, oasi di pietra, spazio desertico, contaminato, vagamente surreale, dominato dalla centrale nucleare che occupa l’orizzonte è il giardino dell’Eden, ma anche quello di Getsemani, in cui si consuma la persecuzione” [12].
In silenzio di fronte all’invisibile
Con Tutte le nostre vite Despotović ci lascia in silenzio. Per la scelta di temi estremamente personali, taglienti e coraggiosi. Per la capacità di analisi psicologica, in cui la pittura diventa lo specchio in cui siamo costretti a guardarci. Per l’intensità disarmante della pittura, che ci mostra – ancora una volta – ciò che non vediamo. D’altro canto, come ci ricorda Gilles Deleuze, il vero pittore “riproduce il visibile soltanto per catturare l’invisibile”, perché la pittura è “dipingere delle forze, non dipingere delle forme” [13].
[1] W. Szymborska, Vermeer, in P. Marchesani, a cura di, La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945-2009), Adelphi, Milano 2009, p. 733.
[2] Il titolo del paragrafo gioca liberamente con la celebre frase di Agostino d’Ippona “In interiore homine habitat veritas” (“Nell’interiorità dell’uomo abita la verità”, De vera religione, 39, 72) nella quale è stato sostituito il sostantivo homine (“uomo”) con pictura (“dipinto”).
[3] P. Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, Marsilio, Venezia 2018.
[4] È impossibile fornire una traduzione esaustiva del concetto di Heimat presente nella lingua tedesca, che si può rendere come “paese natio, comunità di appartenenza, patria, casa”.
[5] G. Bachelard, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari 2011, p. 32.
[6] I versi originali della poesia sono “Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.”, in E. Montale, “Non chiederci la parola che squadro da ogni lato”, in Ossi di seppia, Mondadori, Milano 2003, p. 59.
[7] Albert Camus, Discorso di accettazione del Premio Nobel, 10 dicembre 1957. Cfr. http://www.igiornielenotti.it/centenario-della-nascita-di-albert-camus-10-dicembre-1957-discorso-discorso-di-accettazione-del-premio-nobel/ (Ultima consultazione 8 agosto 2025).
[8] M. Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, Einaudi, Torino 2009, p. 23.
[9] Ibidem, p. 24.
[10] Des espaces autres, conferenza tenuta da Michel Foucault il 14 marzo 1967 presso il Cercle d’études architecturales di Tunisi, pubblicata per la prima volta in “Architecture, Mouvement, Continuité”, n. 5, ottobre 1984.
[11] M. Foucault, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, Mimesis, Milano 2001, p. 28.
[12] G. Del Re, Derek Jarman, Editrice Il Castoro, Milano 1997, p. 76.
[13] G. Deleuze, Sulla pittura, Einaudi, Torino 2024, pp. 54-55.











