Nemanja Cvijanović / Ivan Moudov
Non

Parigi (F), Galerie Alberta Pane
gennaio ― febbraio 2011

Video courtesy of Vernissage TV. Thanks to Heinrich Schmidt.

Strategie di sfida
Daniele Capra




Benché la crisi economica degli scorsi anni abbia messo in discussione molte delle sicurezze acquisite dai cittadini, chi vive nel mondo occidentale in una condizione di sostanziale benessere individuale è indotto a misurare il proprio ruolo nella sfera pubblica quasi esclusivamente in una dinamica di mercato, sull’essere cioè – anche antropologicamente – homo oeconomicus [1]. L’attività economica e professionale costituiscono cioè essenzialmente il solo campo di gioco in cui la persona rivendica il proprio ruolo e le proprie azioni, mentre le altri variabili hanno perso drasticamente importanza. Soprattutto, come spiega Slavoj Žižek in una recente intervista, la democrazia sembra non interessare più di tanto, con l’effetto paradossale che il cittadino che vive in un contesto democratico sembra non rendersene sempre conto e comunque non è direttamente interessato alla cosa [2]. Perfino molte delle manifestazioni di dissenso che hanno animato molti dei paesi europei in seguito alla crisi, alla disoccupazione, al fallimento delle banche hanno alla base delle profonde radici economiche e solo raramente motivazioni di natura ideologica. L’esito paradossale è che, senza nemmeno esserne consapevole, una forma cruda e perversa di realpolitik di stampo economico abbia preso il sopravvento espellendo la democrazia dal campo del confronto [3]. Alla stessa maniera, le grandi utopie politiche che hanno animato ed infiammato i due secoli appena passati hanno mostrato la propria inapplicabilità poiché incapaci di reggere il peso di una realtà che si è via via polverizzata. Tutto questo può essere un motivo per ammettere la sconfitta da parte di chi crede che un’alternativa o un’altra via siano possibili: non c’è spazio che per una desolante bandiera bianca.

A questo senso di frustrazione, ma anche a chi pensa che nessun’altra battaglia meriti di essere ancora combattuta, pare rispondere Nemanja Cvijanović con Don’t, video che mostra proprio una bandiera bianca che sventola, simbolo inequivocabile di ogni sconfitta. Solo che il vessillo non è realmente bianco, poiché l’artista è intervento sul monitor manomettendolo: il drappo è infatti di un bel rosso, colore che richiama la tradizione politica rivoluzionaria di sinistra ma anche, il simbolo di sfida di chi ancora non abbandona le armi. La resa diventa così realmente impossibile, o se vogliamo estremizzare, ogni resa nasconde al proprio interno le potenzialità rivoluzionare. Cvijanović è infatti intervenuto sul televisore rendendo impossibile la trasmissione del verde e del blu con cui vengono costruite additivamente le immagini sullo schermo. Ambiguamente l’immagine racconta così le potenzialità eversive nascoste in ogni rappresentazione, ma anche il limite che ciò comporta: il mondo, il contesto su cui sventola la bandiera, perde la propria identità e lascia spazio ad una vista che distorce la sua natura cromatica, sporcandola forse con un punto di vista ideologico.
In realtà Don’t racconta come Cvijanović sappia guardare il mondo in forma ludica, mostrando le potenzialità eversive di un semplice gesto di insubordinazione allo status quo. L’artista infatti avverte lo spettatore dell’ambiguità interpretativa nascosta dietro ad ogni visione del mondo, assegnando all’arte il ruolo di confine tra disincanto realista e farsa ideologica. Un approccio anarchico (e furbo) permette invece di rendersi conto del fatto che i conti non tornino e che forse non torneranno mai, e che quindi conviene alzare di molto la nostra soglia di attenzione. Come capita anche con Scenography for Applause! (appositamente allestito in galleria) in cui le barriere metalliche sono nel contempo scultura che fa ironicamente il verso al costruttivismo e strumento con cui la polizia controlla i cortei. Chi visita la galleria è così nel contempo spettatore dell’arte e uomo che manifesta, che pubblicamente è chiamato a prensere una posizione, sia pure contro qualcosa o qualcuno. Senza nemmeno rendersene conto, partecipare è schierarsi.

La realizzazione di un museo di arte contemporanea è un attività complessa dal punto vista gestionale ed onerosa da quello finanziario, qualunque sia la forma e le modalità adottate. Benché sia molto elevato il sostegno dei privati, strutture di questo tipo non esisterebbero in Europa se le istituzioni pubbliche non ritenessero fondamentale sviluppare e dare visibilità alla ricerca e al lavoro dei giovani artisti. Questo paradigma però non funziona nel paese in cui vive Ivan Moudov, non tanto o non solo per un fatto economico, ma perché le leggi vigenti in Bulgaria e l’ottusità di funzionari e burocrati dei ministeri (abituati a mettere nei musei solo manufatti di pittura e scultura con una storia pluridecennale alle spalle) lo rendono praticamente impossibile.
Già qualche anno fa Moudov aveva agito in questo contesto fortemente ostile al contemporaneo inventandosi di sana pianta un nuovo museo presso una vecchia stazione dei treni di Sofia. In quell’occasione – era il 2005 – l’artista aveva messo manifesti per la città, inserzioni pubblicitarie ed aveva invitato addetti ai lavori, cittadini e politici all’inaugurazione. Ne vanne fuori uno straniante party collettivo, cui avevano partecipato svariate centinaia di persone credendo di assistere alla nascita di una nuova istituzione, che in realtà non esisteva allora e che nemmeno ora ha visto la luce. In quell’occasione Moudov seppe creare l’aspettativa giusta ed usò a proprio vantaggio quell’edificio storico ed i meccanismi della comunicazione. Inoltre, quelle persone convenute alla supposta apertura museale dimostravano che la cosa andava portata avanti.
Il progetto Musiz è così evoluto in The creation of a Museum of Contemporary Art in Bulgaria, video-intervista ad un avvocato bulgaro che racconta le peripezie e le strategie adottate per realizzare lo stesso museo di sui l’artista sente il bisogno, seppur in forma legale, con le carte in regola e tutte le autorizzazioni del caso. Se cioè negli anni scorso Moudov aveva esclusivamente cecato di aggirare le istituzioni, di utilizzare a vantaggio personale e collettivo dei buchi che esistono nello sfilacciato tessuto della società bulgara, ora l’artista ha maturato l’esigenza di intraprendere le strade più serie imposte dalla burocrazia: il gesto sovversivo e battagliero è diventato così una determinazione scientifica e razionale che porta ad incidere sulla realtà non per contrapposizione ma per azione diretta. In particolare Moudov ha così scelto di lottare contro le elefantiache istituzioni ereditate dal periodo comunista giocando nel loro campo, ma con le gambe fresche di un giocatore dotato di polmoni e fantasia. Tale posizione segna un nuovo approccio nelle dinamiche di impegno politico degli artisti della generazione di Moudov, che fino ad ora hanno messo in mostra gli aspetti più critici dei paesi emergenti quasi esclusivamente dal punto di vista sociale. Con questo nuovo lavoro l’artista bulgaro fa un salto in avanti e si sporca le mani con la realtà non solo evidenziando le contraddizioni insite in un sistema, ma mettendo in atto – come suggeriva Beuys – i processi necessari per emendarlo. E naturalmente non possiamo che augurarci che ciò avvenga.
È una sorpresa invece lo site specific che Moudov realizza per la galleria, che i visitatori sperimenteranno di persona, in quella logica complessa di interazione ed emancipazione di cui parla Ranciér [4]. Moudov infatti ha sostituito la maniglia interna della porta con una sferica che non permette di uscire direttamente. Chi deve farlo deve attendere che qualcuno entri o attirare l’attenzione di coloro che passano dalla strada per farsi aprire. Un cartello, che spiega la cosa, è affisso sui muri della galleria ed invita a non farsi prendere dal panico. Non rimane che essere presi in giro e attendere, magari riflettendo sulle dinamiche di inclusione/esclusione che sono proprie del mondo dell’arte, in cui il gioco tra le parti – la critica, il mercato, le fiere, le gallerie, il collezionismo – si sviluppa a partire proprio da scelte di questo tipo. Oppure cercare una seconda via d’uscita, sperando che anche qui non ci sia qualche terribile scherzetto.




[1] “L’Homo oeconomicus è un concetto fondamentale della teoria economica classica: si tratta, in generale, di un uomo le cui principali caratteristiche sono la razionalità (intesa in un senso precipuo, soprattutto come precisione nel calcolo) e l’interesse esclusivo per la cura dei suoi propri interessi individuali” (Wikipedia). Qui la parola è da intendersi in senso estensivo.
[2] S. Žižek, L’effetto Berlusconi, intervista a cura di A. Gnoli, in Alfabeta2, n.4, novembre 2010, p. 3.
[3] Vedi A. Badiou, S. Žižek, Philosophy in the Present, Polity Press, Cambridge, 2009, p. 75.
[4] J. Rancière, The Emancipated Spectator, Verso, London, 2009, p. 13-14.