Pittura mia
saggio, Espoarte
ottobre 2020
ISSN 2035-9772
Pittura mia
Daniele Capra
Pittura lingua morta?
Quando una dozzina di anni fa iniziavo a muovere le prime mosse come curatore, ricordo che la pittura in sé era avvertita in maniera molto differente da come lo è oggi, momento nel quale – occorre ammetterlo – il mercato e la moda l’hanno spinta a riguadagnare una posizione che prima sembrava definitivamente persa. Mi riferisco, in maniera particolare, alla sua reputazione, cioè della stima di cui essa godeva nel complesso degli addetti ai lavori e del pubblico di collezionisti. Il ritornello più sentito era quello della sua inadeguatezza ai tempi, della sua presunta vecchiezza: dipingere era passatista, in quel momento di ubriacatura (multi)mediale e di delirio (pseudo)concettuale. Qualsiasi video mediocre, qualsiasi farneticazione intimista condensata in un objet trouvé, qualsiasi sterile debolezza rivendicata come forza in un’opera inadeguata costituita da frammenti, qualsiasi ragionamento inattaccabile ma incapace di condensarsi formalmente in un’opera, avevano – per molti, forse troppi – più diritto a essere visti di un’opera pittorica. Come se un dipinto non avesse di per sé i requisiti per essere cittadino tra le opere, tanto più perché “commerciale”. E come se un medium differente fosse a prescindere un indice della qualità. Che biasimevole deliquio.
Ero agli esordi e ricordo i commenti di alcuni colleghi più agé e smaliziati ai miei inviti a mostre di pittura da me curate. Simpaticamente ironici, talvolta mi dicevano che era parte della gavetta, implicando come sottotesto che la pittura fosse in senso spregiativo il feuilleton necessario che, prima o poi, mi avrebbe condotto all’arte della vera letteratura. Ricordo risposte entusiastiche solo da qualche artista, come Adrian Paci o Luca Francesconi, che, a dire il vero, non erano affatto estranei al dipingere.
La ricerca di uno status
Poi questa situazione è mutata e sempre più frequentemente sono cominciate le mostre in cui gli artisti che praticano la pittura si sono ripresi la scena, aiutati talvolta da curatori sensibili o da galleristi, pur sempre in una condizione di quasi vuoto istituzionale (se si esclude per esempio la Galleria Comunale di Monfalcone). Per riconquistare quello status perduto era necessario stare insieme in forma militante, riportare cioè al centro del discorso quel medium ignorato le cui sorti e la cui narrazione, almeno nel nostro Paese, erano state archiviate dai tempi della sbornia della Transavanguardia. Ma essere tra pittori, discutere di pittura, non era sufficiente. Serviva una spinta ulteriore, che è puntualmente venuta dal mercato e dal fatto che, talvolta, la pittura era ancora desiderata dai collezionisti. E quando il mercato si muove in una direzione, inevitabilmente nessuno si oppone, salvo i professionisti dell’antipittura, che in questa tendenza hanno inevitabilmente riscontrato i limiti di sempre, cioè il fatto di essere venduta, e quindi commerciale, come se il fatto fosse di per sé disdicevole.
Nella prima metà degli anni Dieci è così cominciata una serie di mostre, non solo nel nostro Paese, in cui si è analizzato con sempre maggiore scrupolo il mezzo pittorico, la sua articolata diversità, la sua innata (in)coerenza, la sua vitalità: si è così riportato al centro della scena la proteiforme diversità di linguaggio, la sua visionarietà, il tentativo degli artisti di incidere sul reale. Tra le mostre che sono state per me significative in questo senso – perdonate se parlo di me – devo includere Graffiare il presente, che ho avuto il piacere di curare con Giuseppe Frangi per Casa Testori nel 2018. È stata una mostra complessa, mirata a mettere in luce le differenze e a dimostrare come, per una generazione di artisti nati tra gli anni Settanta e Ottanta, “la pratica pittorica nasca da esigenze di perseguimento di obbiettivi intellettuali significativi, come missione estetica, esistenziale o politica. Rifuggendo in ogni modo l’assertiva e rappacificante ripetizione della propria identità, il rassicurante e inconcludente esercizio dell’arte come decorazione o didascalica addizione al mondo”. La mostra rappresentava un tentativo, anarchico e incompleto, di cogliere alcuni dei più rilevanti tentativi di resistenza a non dissolversi nell’informe liquidità del tempo presente, portati avanti da artisti italiani.
Questioni linguistiche
Ma esiste una pittura che possa definirsi italiana? Esistono degli elementi di unitarietà, delle caratteristiche culturali, ideologiche o estetiche che possano identificare la pittura del nostro Paese? Evidentemente no. Gli elementi identitari si sono quasi del tutto dissolti per effetto della globalizzazione, dell’estrema accessibilità dei contenuti, della velocità. L’identità agisce cioè solo come un elemento che appartiene alla storia, mentre lo scenario in cui gli artisti agiscono è portato a proiettarsi ovunque. Quella che viene praticata/coltivata individualmente dall’artista è cioè una condizione espressiva e contenutistica caratterizzata da un intreccio di istanze personali e collettive che rendono la poetica di ciascuno identificabile in modo puntiforme, senza che vi sia una reale prevalenza di contenuti e stili (anche se, paradossalmente, si può dire che esiste una scuola veneziana, a partire dall’esperienza dell’Atelier F maturata all’Accademia di Belle Arti di Venezia; ma questo è un caso isolato). A differenza di quanto accade con l’enigmistica, unire i puntini non porta ad alcun intellegibile risultato.
Militare, ancora di più
Di certo, pur nella difficoltà della condizione odierna, coloro che – come chi scrive – ritengono la pittura degna alla pari delle altre forme espressive, devono militare con ancora più scrupolo, con più precisione, con più forza. Anche rispetto al suo essere di moda, e quindi facilmente banalizzabile dai demagoghi e dal mercato di bassa lega. Pittura mia, non ti lasceremo sola.