Roberto Pugliese
Unexpected Machines
Berlin (D), Galerie Mario Mazzoli
maggio ― luglio 2011
Daniele Capra
Ragione e fede. Molte delle sofferte inquietudini di Blaise Pascal nascono dalla contrapposizione e dalla pugnace lotta tra i due strumenti conoscitivi, due modalità che hanno nella razionalità geometrica e nel sentire con lo spirito le principali forme su cui l’uomo può contare. In particolare l’esprit de finesse (la conoscenza che avviene grazia al cuore [1]) rappresenta nel filosofo francese lo stadio avanzato di consapevolezza che permette all’uomo – sorpassata l’esperienza del mondo dell’esprit de géometrie – di cogliere dio. Ragione e fede, o, se vogliamo dirlo in forma estensiva, approccio razionale ed emotivo, sono cioè i dispositivi di comportamento che permettono di avere un’esperienza totalizzante, dalla finitezza delle cose materiali allo sgomento del «silenzio eterno degli spazi infiniti».
Conducono a questa dicotomia interpretativa, piacevolmente imbarazzante, le opere meccaniche di Roberto Pugliese, dei veri e propri robot che interagiscono tra di loro in base a criteri di natura sonora. L’artista ha infatti realizzato dei bracci meccanici dotati rispettivamente di microfono e di speaker che si muovono creando dei fenomeni di feedback acustico o effetto Larsen [2], che comunemente siamo abituati a sentire come fastidioso disturbo (il fischio acuto che capita malauguratamente quando microfono e altoparlante sono troppo vicini). Un complesso sistema software messo a punto dall’artista gestisce i motori elettrici ed i parametri che muovono i robot, che si trovano nella condizione di rincorrersi come dei bambini che giocano a guardie e ladri. Chi guarda è così messo in uno stato di stupore e di meraviglia, di fronte al gioco delle parti e al teatro del suono che ostinatamente perde e ricerca sé stesso. E soprattutto, oltre ogni precedibile aspettativa logico-razionale, tali macchine producono nell’osservatore un senso di innata poesia, dovuta non solo al fatto che i meccanismi di feedback siano percepiti come naturali [3], ma anche perché il suono può ricondursi facilmente all’esperienza di natura musicale.
L’opera di sound art, che per tradizione ha in sé una vocazione ambientale di interazione riconducibile alla relazione spettatore/ambiente, smette infatti di essere contesto, semplice dispositivo che mette in moto le interazioni dello spazio con lo spettatore: si trasforma essa stessa in soggetto di interazione. L’osservatore non è solo, non è l’unico soggetto che guarda e sente, ma scopre che, oltre a lui, vi sono altri attori attivi che calcano il palcoscenico (pur vincolati da un ruolo assegnato) e che possono avere la forza di rubargli la scena. Equilibrium ed Equilibrium Variant sono infatti due lavori che mettono in discussione il paradigma dell’opera come campo in cui avvengono relazioni di rete [4], per proporsi invece come entità autosussistente e che performa la propria essenza, la propria natura. Il robot che si autoregola non ha così nessuna necessità di avere nello spettatore un complice, ma lo rende al contrario un voyeur consapevole del proprio ruolo. Potremmo dire che lo spettatore è emancipato – come ha teorizzato Ranciére – non tanto per la sua volontà individuale o diretta, quanto per il fatto che l’artista «si auspica di produrre una forma di consapevolezza, una sensazione intensa, una spinta ad agire» [5]. Le due opere di Pugliese non obbligano però chi guarda ad interagire (sebbene stimolino a farlo), ma lasciano l’osservatore in una condizione di libertà, per il fatto che egli possa accettare o rifiutare il gioco proposto. Sono, in ultima analisi, delle macchine non completamente inutili [6].
Il fatto di essere a metà strada tra a dimensione di utilità ed inutilità, testimonia la volontà dell’artista di rompere il paradigma dell’opera chiusa, della macchina che finisce sempre per essere celibe e mancante di qualcosa. Il lavoro Lussuosa macabra vanità (caratterizzato da un magnete che percuote una lastra metallica) mette in rapporto l’opera con quello che accade nel mondo, al di fuori del controllo diretto di chi guarda. Il numero delle percussioni che si odono infatti – che sono l’elemento variabile – è determinato dalla stima del numero di animali da pelliccia che quotidianamente vengono ammazzati, la cui cifra è costantemente monitorata grazie ad un apposito sito web, cui la macchina si collega per scaricare i dati. L’opera è cioè nel contempo fredda esecutrice di ordini predeterminati e dispositivo reattivo alla mutevolezza dell’ambiente e degli eventi esogeni: ancora quindi una dimensione di medietà, dovuta in questo caso alla capacità del lavoro di essere un nodo di una relazione di rete. In questo caso lo spettatore, se vuole interagire (e non necessariamente a favore degli animali, benché artista lo auspichi), è costretto a mettere in atto azioni a lungo periodo che scavalchino la volontà o l’emotività del momento, mettendo in discussione il proprio comportamento etico. L’opera, in ultima istanza, può fungere da macchina attivatrice di processi, mentre lo spettatore può decidere se essere semplice ascoltatore o giocare un ruolo attivo, in prima persona.
Igor Stravinskij, in fiera opposizione alla sensibilità romantica ottocentesca che aveva divinizzato in qualche modo l’interprete (e che non è comunque mai stata messa in discussione del tutto nel Novecento), era sovente molto critico nei confronti dei musicisti che suonavano la sua musica: troppo protagonismo, troppa libertà interpretativa, quasi a falsificare il testo, mentre alla fine bastava semplicemente fare quello che era scritto. D’altronde, come spiega con il suo stile lapidario, «i compositori mettono solo insieme le note e niente più» [7] dato che «la musica, per sua stessa natura, è del tutto incapace di esprimere qualcosa, che sia un sentimento, una prospettiva di pensiero, uno stato emotivo, un fenomeno della natura, ecc.» [8]. Stravinskij cioè avrebbe volentieri affidato l’esecuzione della sua musica ad un automa o ad una macchina che fosse in grado di realizzare le istruzioni da lui impartite, in piena coerenza con l’intento dell’autore. E questo è quello che ha fatto Roberto Pugliese con Orchestra Cinetica, ensemble sonoro realizzato mettendo insieme svariati elettromagneti, ciascuno dei quali esegue una traccia ritmica ben precisa, a seconda delle proprietà fisico-meccaniche dei materiali (distanti sia visivamente che acusticamente dagli strumenti suonati in orchestra), ma con una logica di partitura grazie a cui gli eventi musicali sono inseriti in una macrostruttura. All’esecutore, all’interprete, Pugliese infatti sostituisce circuiti, fili, magneti, una sorta di natura morta che reagisce secondo le modalità da lui stesso scelte, senza esprimere dirette volontà, senza nemmeno fiatare. L’osservatore guarda e vede insieme. Il povero vecchio Igor, invece, sarebbe morto dall’invidia.
[1] Cfr. Blaise Pascal, Pensieri, trad. G. Auletta, Mondadori, Milano, 1994, n. 267: «L’ultimo passo della ragione è riconoscere che c’è un’infinità di cose che la sorpassano» oppure il celeberrimo n. 282: «Conosciamo la verità non solo con la ragione ma anche col cuore».
[2] «L’effetto Larsen (dal nome del fisico Søren Absalon Larsen che per primo ne scoprì il principio), detto anche feedback acustico, è il tipico fischio stridente che si sviluppa quando i suoni emessi da un altoparlante ritornano ad essere captati con sufficiente potenza di innesco da un microfono (o dal pick-up di un qualsiasi strumento musicale elettrico, come una chitarra o un basso) e da questo rimandato al medesimo altoparlante, in un circuito chiuso. L’effetto si innesca solitamente quando il microfono è troppo vicino all’altoparlante e capta una frequenza emessa da quest’ultimo, in un dato momento più forte delle altre, che quindi viene amplificata e riprodotta a sua volta con ampiezza via via crescente, virtualmente illimitata, se non fosse che l’amplificatore va in saturazione», Wikipedia.
[3] I meccanismi di feedback (detti anche di retroazione) sono frequentemente usati in natura per controllare i più svariati parametri, dal battito cardiaco degli animali al controllo del numero di animali attraverso le catene alimentari.
[4] Cfr. B. Diken, N. Albertsen, Artworks networks – field, system or mediators? in Theory, Culture & Society, n. 21, 2004, pp. 35-38.
[5] Cfr. J. Rancière, The Emancipated Spectator, Verso, Londra, 2009, p. 14.
[6] Mi riferisco alle cossidette macchine inutili di Bruno Munari, serie di sculture da soffitto caratterizzate dal movimento degli elementi.
[7] I. Stravinskij, R. Craft, Dialogues, Faber, Londra, 1982, p.52.
[8] «I consider that music is, by its very nature, essentially powerless to express anything at all, whether a feeling, an attitude of mind, a psychological mood, a phenomenon of nature, etc. Expression has never been an inherent property of music», I. Stravinskij, An Autobiography, Simon & Schuster, New York, 1936, pp.53-54.