Tobia Ravà
Algoritmi e Ghematriot

Caldogno, Villa Caldogno
aprile ― maggio 2011

La verità è tra i numeri
Daniele Capra




Io veramente stimo il libro della filosofia esser quello che perpetuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi; ma perché è scritto in caratteri diversi da quelli del nostro alfabeto, non può esser da tutti letto: e sono i caratteri di tal libro triangoli, quadrati, cerchi, sfere, coni, piramidi et altre figure matematiche, attissime per tal lettura. [1]


A partire dalle avanguardie degli anni Cinquanta del secolo scorso, tanto gli artisti che usano la pittura come una dei medium possibili, quanto coloro che si sentono compiutamente “pittori”, hanno via via maturato un atteggiamento di indipendenza dalla realtà e dall’idea di mimesi. Seppur con esiti differenti e fortune alterne, il concetto (già presente nell’arte greca e ripreso successivamente nelle teorizzazioni dal Rinascimento) non aveva mai smesso di essere dibattuto dai teorici e di pungolare gli artisti stessi, pendendo talvolta sulla testa come la più classica delle spade di Damocle. Il rapporto della pittura con la realtà, che da un lato può fortunatamente dirsi mai risolto compiutamente [2], ha portato in dote – nelle sue continue frizioni – lo spiccato atteggiamento di contestazione da parte delle avanguardie postbelliche, sfociato successivamente nella consapevolezza che la pittura possa vivere di un linguaggio proprio, di dinamiche che sono interne allo stesso mezzo e possono garantire in qualche modo l’autosussistenza.

È anche l’atteggiamento che caratterizza il lavoro di Tobia Ravà, pittore – per caso o scelta filosofica – che ha maturato uno stile personalissimo, in cui la pittura è essenzialmente uno strumento che fa da sé, e che diventa un’impalcatura che rende possibile un gioco formidabile sul linguaggio. Ereditato e ribaltato il costrutto ludico magrittiano di Ceci n’est pas une pipe, l’artista infatti mostra nei suoi lavori dei ritagli di mondo che sono qualcos’altro, e non necessariamente qualcosa di diverso da ciò che lo spettatore può vedere sulla superficie pittorica. I suoi paesaggi, i suoi volti o suoi animali, sono infatti anche qualcosa di diverso, come annuncia la loro pelle tatuata. Sono migliaia di numeri, qualche volta lettere, ad abitare quel microcosmo, che vediamo e conosciamo a partire dalla sua forma visibile. Quei pezzi di realtà non sono illusioni: il suo non è un monito alla non conoscibilità del mondo, e nemmeno è sua volontà instillare dubbi filosofici sulla visione. Al contrario, la sua ossessiva necessità di analizzare e ri-immaginare in forma ghematrica la realtà esprime la volontà di costruire sistemi di relazioni forti ma aperti tra le cose, tra gli oggetti, tra gli elementi del mondo.
Alla base di tutto c’è la ghematria, lo studio delle corrispondenze tra le lettere dell’alfabeto ebraico e numeri, di cui l’autore quotidianamente si nutre. In particolare, grazie all’equivalenza tra parola e numero, la ghematria innesca un meccanismo interpretativo per cui i concetti possono trovare forma numerica, e, allo stesso tempo, una serie numerica può essere espressione di più parole. Il rapporto che si instaura è sostanzialmente quello che in matematica viene definita funzione suriettiva [3], una legge grazie alla quale gli elementi di partenza (gli elementi x) vengono trasformati in altro (cioè y), ma contemporaneamente y può essere immagine di più x. Questo garantisce una discreta – seppur non illimitata – libertà interpretativa, poiché l’immagine finale può essere generata da elementi diversi. Ma soprattutto mette in moto una serie vorticosa di pensieri alla ricerca delle interrelazioni tra parole, concetti, e – questo il passo successivo che compie Ravà – immagini.

Le tele e gli oggetti (sovente sono animali) che l’artista veneziano dipinge, sono così popolati da una pelle numerica, che, più di rivestirli li motiva filosoficamente. Non si tratta banalmente di epidermide: le sue immagini contengono infatti al proprio interno, tra i propri tessuti, dei micro enunciati che permettono di muoversi altrove, di spostare l’attenzione anche sulla sostanza e non solo sull’accidente della superficie. Questo, fatalmente, consente a Ravà di mettere a punto un dispositivo di senso che rende possibile la connessione tra cose che prossime non sono: l’opera è cioè un vero e proprio ipertesto basato su relazioni numerologiche, su rapporti segreti tra concetti. Chi vede, pur non essendo conscio di tutti i passaggi (e dei gradi di parentela delle parole), viene condotto altrove poiché la pelle numerica è inevitabilmente una decorazione che apre gli occhi ad una realtà altra, affascinante e misterica, anche nella propria incapacità di capire per filo e per segno tutti i passaggi intermedi. Allo spettatore – blandito da una decorazione piacevole ed insistita che apre continuamente nuove finestre come fa un internet browser impazzito – non rimane che perdersi, o prendere le distanze alla ricerca dei necessari appigli visivi, che sono l’unica ancora di salvezza di fronte ad una babele irresistibilmente seducente di segni.

È una selva in molti aspetti esoterica, quella che Ravà costruisce inizialmente a tavolino per poi essere riportata sulla tela (o su altri superfici), trasferendo le serie numeriche sulle immagini, o – meglio sarebbe dire – sulle impalcature concettuali che quelle stesse serie hanno generato. Se evidentemente la natura è scritta a caratteri matematici, come già spiegava Galileo nel Saggiatore e nella celebre lettera al Liceti, l’artista veneziano vuol mostrare inoltre come anche le parole stesse (e i numeri da cui sono sottese) abbiano la capacità generativa di creare la natura, non solo nella finzione del dipinto, nel gioco della rappresentazione, ma anche nei pezzetti di realtà che stanno sotto il nostro sguardo. Questo approccio, più vicino a quello dell’ermeneuta che non a quello dell’artista, porta evidentemente alla considerazione che il mondo possa essere strutturato e compreso solo attraverso una forma interpretativa sapienziale, e che nel contempo i principi che lo regolano siano per lo più generati dal linguaggio e dalle sue dinamiche interne.

Mai come davanti alle sue opere, lo spettatore è anche studente di filosofia.




[1] G. Galilei, Lettera a Fortunio Liceti (gennaio 1641), in Le Opere, vol. XVIII (n.4106), Barbera, Firenze, 1968, pag. 295.
[2] Si veda ad esempio il corposo saggio di J. Deridda La verità in pittura, Newton Compton, 2005.
[3] Una funzione si dice suriettiva quando ogni elemento y del codominio è immagine di almeno un elemento x del dominio.