Romain Blanck
Feuilles, Tests, Feuilles, Toiles,
Padova, Multiplo
ottobre ― novembre 2019
Perdersi
Daniele Capra
La ricerca artistica di Romain Blanck, di natura pittorica, è basata sull’impiego di forme primarie che vengono combinate a più livelli su di una superficie monocroma, come fossero parole in libertà di un vocabolario visivo primario. Tali segni provengono da un immenso database che l’artista ha costituito negli anni con i foglietti e le pagine di quaderno, strappati nelle cartolerie o nei negozi di belle arti, in cui le persone provano penne, pennarelli, evidenziatori. Ogni segno, ogni disegno o ogni minima unità visiva vengono impiegati dall’artista come delle unità indipendenti di significato, come il lessico con cui articolare un discorso caratterizzato da una grammatica minimale e da una sintassi anarchica. La tela è così il luogo dello scarabocchio, del ghiribizzo, del serpente a zigzag in cui si controlla lo spessore del tratto, del disegnino sciocco in cui si prova un colore o del vortice fatto per far scrivere una penna annoiata il cui inchiostro, in attesa di un utilizzatore che la prenda in mano, è rinsecchito.
La pittura di Blanck è una pratica processuale e sostanzialmente aniconica basata continua stratificazione di elementi, le cui parti costituenti ricordano visivamente la street art e le scritte sui muri realizzate con le bombolette spray. Rispetto a tali stimoli l’autore si pone come una sorta di seriale e scientifico ordinatore di flusso, come avviene nella pratica dei musicisti elettronici che costruiscono un brano, o la scaletta di un concerto, mixando i campionamenti di cui dispongono e che si sono preoccupati di raccogliere e ordinare. L’artista è cioè colui che traccia un percorso, ogni volta differente, a partire dai prelevamenti attuati ad ignari produttori di contenuto, autori che non sono tali, ma lo diventano grazie alle modalità in cui l’opera viene generata. L’opera è, inoltre, l’esito di un attività di continua sovrapposizione, di costante rifacimento da parte dell’artista, il quale stratifica gli elementi fino a quando l’energia visiva che emerge dalla loro combinazione possiede una forza più elevata della somma algebrica dei singoli componenti (come classicamente avviene nel processo creativo della pittura, in cui l’artista si chiede costantemente se aggiungere ulteriori dettagli possa aumentare o togliere forza all’opera sulla quale sta lavorando). Quella che ne esce sulla superficie è quindi una sorta scrittura visiva sedimentata, ma in forma collettiva e totalmente inconsapevole: è un cadavre esquis di cui l’artista è il regista nascosto, avendo egli il medesimo ruolo del Caso che, nel gioco inventato dai surrealisti, combina le parole.
Nella pratica artistica di Black gli aspetti della ricognizione (nelle cartolerie, per la strada), il successivo ripensamento e ricollocazione su di una superficie in una forma ordinata (con un criterio che metta cioè insieme le informazioni veicolate da ciascun elemento) sono antropologicamente assimilabili all’attività svolta da un geografo che, dopo aver attuato una perlustrazione del territorio, compone una mappa mettendo in rilievo gli elementi significativi di un determinata area. L’artista però non si occupa di realizzare delle carte geografiche che corrispondano a qualcosa, in cui vi sia una scala corretta, l’esattezza della rappresentazione e la perfetta corrispondenza rispetto alle coordinate cartesiane: i luoghi e gli elementi significativi che egli seleziona per ciascuna tela creano infatti delle mappe che sono fuori scala, immaginarie, schizofreniche. L’osservatore, infatti, al contrario delle finalità di ogni mappa ordinaria, non ha qui necessità di capire il punto in cui è o come muoversi sul terreno: può non capire, fraintendere e sbagliare. E piacevolmente perdersi.