Salvatore Palazzo
Fuoco Fluido

Galleria Monopoli, Milano
maggio — giugno 2024

Prima e dopo le ceneri
Daniele Capra




L’acquerello è una delle tecniche espressive più usate nelle situazioni in cui il tempo a disposizione dell’esecutore è ridotto oppure non si possa disporre di altri media pesanti o ingombranti da trasportare. A partire dal Cinquecento, e ancora di più da quando nel XVIII secolo i viaggi e il Grand Tour diventano una moda culturale irresistibile per le élites europee, l’acquerello diventa il mezzo espressivo più utilizzato per delineare un paesaggio, fissare su carta la vista di un palazzo o di una rovina antica nella campagna, o, più prosaicamente, per trattenere per sé un ricordo da riportare a casa. Il taccuino si trasforma così in un imprescindibile strumento di memoria, poiché supporto in grado di raccogliere le immagini, le riflessioni e i resoconti delle persone incontrate durante il viaggio.


Ma, sul finire del Settecento, si assiste – complici sia i mutamenti socioculturali dell’epoca che i primi fermenti preromantici – anche a un ulteriore cambiamento: l’acquerello diventa non solo un medium comune, ma anche in qualche modo intimo, proprio per la sua accessibilità e la sua immediatezza. Persone comuni, artisti dilettanti e di professione vi ricorrono per segnare fugacemente suggestioni, sensazioni o appunti visivi. L’acquerello si trasforma infatti in un’estensione intima delle esperienze delle persone, una sorta di diario visivo interiore e privato, che poi spesso i pittori professionisti impiegano come base per opere su tela di più grandi dimensioni realizzate a olio. E tale uso rimarrà fino al Novecento, quando questo medium guadagna la piena dignità di forma espressiva autonoma, non necessariamente vincolato a essere un dispositivo propedeutico per elaborazioni pittoriche successive.


Intimità, mancanza di vincoli, assenza di storia: un puro diario, senza mai trattenersi, senza controllare ossessioni, idiosincrasie, ansie e dolori che tornano alla mente, prese di posizione, riappacificazioni o distanze acquisite. Penso a questo quando mi trovo tra le mani per la prima volta gli acquerelli dipinti da Salvatore Palazzo. Una casa che arde producendo alte fiamme dai colori cangianti ne è in qualche modo il centro, il tormentato leitmotiv a cui le opere sembrano ancorate, e che risulta difficile dimenticare. Una casa in preda alle fiamme che brucia in mille modi, forse liberatori, forse semplicemente necessari per l’artista, che pare in questo modo spurgare, con la rapidità dell’acquerello, un’angoscia che lo opprime, dopo aver trovato nella carta e nei colori liquidi i fedeli compagni di viaggio. Di certo, per l’artista, queste opere hanno delimitato un perimetro emotivo significativo, uno spazio in cui muoversi liberamente in una condizione di controllo. Questa modalità può sembrare una forma di autoterapia, che potrebbe testimoniare un’iniziale vicinanza emotiva, che viene poi ribaltata in una vista da distante, e, in qualche modo, ‘fuori di sé’.


Sì, sono vittima di una lettura psicologica dei lavori, e mi perdonerete se continuo a sovrapporre a quelle opere una chiave di lettura così invasiva. Ma nemmeno io riesco a liberarmi dalle immagini di quella casa in fiamme con il fuoco che esce dalla finestra – che si moltiplica talvolta diventando due o tre – mentre la casa si consuma e il fumo invade la superficie, con snervante puntiglio. Se ne è in qualche modo imprigionati, colpiti dall’estenuante ripetizione del soggetto e dalle variazioni che Palazzo ne trae, dalla sua necessità di portare/costruire dati visivi volendo dare prova di qualcosa, come un’ossessione, che di per sua stessa natura non è argomentabile. Eppure vedo case ed edifici avvolti dal fuoco, vedo cieli incendiati che connetto alle immagini di guerra che ho visto sin da bambino, vedo la casa-archetipo che i bambini disegnano rappresentando inevitabilmente in essa anche la famiglia e le relazioni con le persone più vicine. E poi, per contrapposizione, vedo la distensione, l’orizzonte che, prima o dopo il fuoco, mantiene la sua calma piatta e pacata: sembra raffreddarsi – anche cromaticamente – consolidandosi e diventando placidamente inerte, o trasfigurandosi in elemento liquido, come capita di vedere in alcune opere in cui pare di scorgere un fiume.


In realtà il corpus delle opere che costituiscono Fuoco fluido è caratterizzato nel complesso da un insistito dualismo. Verticalità del fuoco che arde / orizzontalità del contesto. Narrazione accaldata / gelida stasi. Colori caldi delle fiamme / colori freddi del paesaggio. Interni che ardono / esterni quasi ghiacciati. Colore fluido nel centro / margine del foglio perfettamente delimitato. Gli acquerelli sembrano infatti nascere sotto l’impulso di modalità antitetiche, di mondi emotivi che l’osservatore immagina inevitabilmente contrapposti. Benché la scaturigine dell’artista sia semplicemente quella di fissare sulla carta una visione fugace, senza alcuna necessità progettuale preordinata.


Così viene spontaneo, considerato il grande sviluppo della serie, ricostruire una narrazione. Per il ripresentarsi di situazioni simili, per l’analogia del formato o di alcuni elementi figurativi, chi guarda è tentato infatti di ordinare cronologicamente ciò che vede, sviluppando delle micronarrazioni, cercando di associare le immagini e trovare l’àncora di una storia, accostandole in base al soggetto dell’opera o alla loro relazione con un’immagine precedente o successiva. Chi guarda applica cioè un montaggio simile a quanto accade nel cinema, ricombinando i lavori e cercando una possibile linea del racconto grazie a una scansione temporale. Con queste opere di Palazzo l’osservatore sente infatti la necessità di una diegesi, poiché gli acquerelli di Fuoco fluido tendono ad attivare visioni successive: più che ‘contemplative’ sono infatti opere ‘generative’, che abbisognano di un nostro ulteriore lavoro.


Nelle case che si consumano avvolte dalle fiamme, nei cieli che sembrano assistere lontani e impassibili, nel lirico paesaggio gelido e inanimato, l’osservatore diventa inquieto, alla ricerca di un’intima condizione di stasi che non arriva mai però ad abbracciarlo e rassicurarlo. Né prima né dopo la cenere.