Orion Shima
Counter-Landscape

Tirana (AL), National Gallery of Arts
marzo ― aprile 2012

Odore di sottobosco
Daniele Capra




Il rapporto tra arte e la realtà è da sempre stato uno dei problemi più complessi per tutti coloro che utilizzano questo mezzo espressivo. Sorpassata l’idea antica di mimesys, secondo cui l’arte e quindi anche la pittura, dovesse servire a rappresentare la realtà (in particolare la natura, considerato l’esempio più alto di bellezza) o a mediare tra il mondo sensibile e l’aspetto divino, dal tardo Rinascimento l’artista comprende come il proprio lavoro potesse rivendicare un’autonomia espressiva e fosse in qualche modo autosussistente. In particolare la forza e le capacità della pittura di generare codici e linguaggi autonomi liberano l’artista dal dover render conto delle proprie creazioni antinaturali e bizzarre poiché, come scrive Bonito Oliva ne L’ideologia del traditore, «per affrontare la catastrofe generalizzata l’artista manierista adotta la corazza dello stile».

La pittura di Orion Shima raccoglie e sposa questo tipo di istanza – che sarà una delle armi di battaglia di tutte le avanguardie novecentesche – che prevede la libertà di occuparsi di tutto e di indagare in ogni direzione senza alcun vincolo o riguardo. L’artista albanese infatti adotta uno stile polimorfo contraddistinto in ogni opera da piccoli cambiamenti, una sorta di propaggini che gli consentono di mescolare con freschezza soluzioni di superficie, di natura puramente tecnica, con un scelta tematica all’insegna di un’intima vicinanza alla natura, al paesaggio, agli animali che popolano i boschi. Se infatti l’opera di Shima è in qualche modo debitoria negli effetti e nella tecnica all’impressionismo di Degas e Renoir, è nel soggetto, nell’atmosfera magica negli scintilli e nei bagliori di una natura in grado di manifestarsi ad ogni sguardo differente, che l’artista si misura trovando ampi spazi di libertà.

La natura nei suoi lavori è infatti caratterizzata da un’aura fatata che ricorda le favole. Ogni ramo è al suo posto, ogni animale si muove libero mostrando la propria bellezza, la propria vitalità magnetica che costringe lo spettatore a fermarsi e a guardare. Come capita in The Rime of the Ancient Mariner di Samuel Taylor Coleridge, in cui un invitato ad una festa di nozze è trattenuto dal vecchio marinaio che gli racconta in maniera ipnotica l’episodio incredibile che gli è capitato di vivere nel vascello, così le opere di Shima obbligano anche l’osservatore casuale a scrutare tra le pennellate. La seduzione infatti avviene quasi per magia, grazie all’occhio: ma non quello fatato del vecchio marinaio bensì quello dell’osservatore. Shima infatti, sposta sul destinatario il pathos che crea, in maniera tale che risulta impossibile sottrarsi alla visione.

D’altro canto, così come teorizzava Giovan Battista Marino già in epoca barocca, «è del poeta il fin la meraviglia». La letteratura, esattamente come l’arte, ha tra i suoi scopi quello di creare immagini che sorprendono, che spiazzino o che scuotano il destinatario. Meravigliarsi, trattenere il fiato non nasce banalmente dalla ricerca di un effetto ma dalla necessità di prendere improvvisamente per mano lo spettatore, trascinandolo in un luogo che gli è estraneo, come una foresta, e raccontargli una micro-storia.

In maniera simbolica come avviene nelle fiabe della tradizione popolare europea, il bosco è uno dei luoghi stranianti perché topologicamente complesso ed inafferrabile. È lo spazio della complessità psichica che non riesce ad essere dominata dall’uomo, ma è anche il luogo in cui vivono gli animali selvaggi che hanno a propria disposizione un corredo di dotazioni (che possono essere interpretate allegoricamente) grazie a cui riescono a muoversi e ad orientarsi liberamente. A questo universo magico, sottolineato frequentemente da colori nella scala dei grigi e dei bianchi della neve che scende, c’è spazio per la meraviglia, per ritrovare le tracce di un mondo lontano e che, in definitiva, non è vero, reale, ma è al contrario un recinto che stimola ed alimenta fantasia di coloro che guardano.

Tra le fronde degli alberi, in una radura tra la bruma, compare un cervo dalle corna ramificate e possenti. È un apparizione furtiva, una presenza che sembra far sobbalzare sia l’animale che lo spettatore. Il quadrupede alza appena la testa: annusa l’aria? Bruca semplicemente dell’erba e non si è accorto di niente? Non lo sapremo mai, non è nemmeno importante forse. Il cervo infatti potrebbe essere reale oppure la proiezione del nostro inconscio, tanto la pittura di Orion Shima si nutre di eventi verosimili e fatti immaginari. Il bosco simboleggia lo spazio inconscio dell’immaginario come la nebbia in Armacord di Federico Fellini: è il recinto che avvolge gli uomini e che mostra e nasconde continuamente gli elementi che le appartengono. Furtivi sono così le presenze, gli abitanti ma anche gli sguardi di chi vuole a tutti i costi riconoscere qualcosa trovandosi  in mano un pugno di mosche.

Il paesaggio, asciutto ed onirico, è la cornice dentro cui valgono delle convenzioni che non sono quelle della realtà di tutti i giorni. C’è un brulicare di vita, di stimoli, di colori, di alberi che si intrecciano senza soluzione di continuità, mentre un lupo ulula nella gabbia e un uccello starnazza. La pittura si dimostra così una disciplina autonoma, con una forza generativa incredibile e in cui possono essere raccontate cose non vere o non accertate, spettri e fantasmi, che rendono tutto questo autonomo, veritiero e vitale. E, per nostro piacere, terribilmente necessario.