Beatrice Meoni / Silvia Vendramel
Slittamenti e Margini

Pisa, Passaggi Arte Contemporanea
giugno ― novembre 2018

Annotazioni sull’essere autori
Daniele Capra




Nel campo delle arte visive, il lavoro collaborativo o cooperativo – sin dalla ludica pratica di attività come il cadavre exquis da parte dell’avanguardia surrealista – è una delle più complesse modalità di elaborazione di un’opera, poiché è in grado di mettere in discussione le tematiche dell’autorialità, delle influenze dell’altro, delle possibili deviazioni del percorso realizzativo dell’opera, nonché da quella che potremmo definire la questione dello specchio, ossia il fatto che l’opera sia per l’artista un dispositivo in cui potersi (ri)vedere, nella condizione cioè di corrispondere in forma identitaria alle proprie possibili proiezioni. Tanto la cooperazione fattiva diretta (contemporanea o in momenti successivi), quanto l’esercizio di modalità di negoziazione reiterata che derivano dalla condivisione degli spazi, dei materiali, del tempo, del contesto o delle relazioni, risultano quindi maniere capaci di contaminare gli aspetti soggettivi dell’artista e di ibridarne la forma, di renderla cioè meno rigidamente definita.


La collaborazione e la condivisione sono cioè un potente antidoto all’assolutezza dell’autorialità in forma identitaria, poiché implicano un territorio di negoziazione in cui le regole e le modalità dirette di corrispondenza autore/opera sono meno stringenti e più labili. Se l’opera può essere considerata psicoanaliticamente come un atto defecativo dell’artista frutto dell’elaborazione digestiva degli stimoli esterni e delle pulsioni-reazioni personali, accettare che un altro autore partecipi alla propria digestione è un atto libertario che risulta difficilmente ammissibile se non si ha totale fiducia dell’altro o se si ha la necessità di sentire l’opera come concretizzazione di una filiazione diretta. Nei Tre saggi sulla teoria sessuale del 1905 Freud immagina che, nella fase anale del rapporto tra genitore e bambino, quest’ultimo tenda a gratificare in particolare la madre con i propri escrementi, poiché essi sono l’esito del soddisfacimento di una pulsione naturale e dell’esercizio di un piacere. Tale ricostruzione può essere significativa anche nella comprensione di cosa sia l’opera, tanto più perché un artista, in forma inconscia, tende a percepirla come «qualche cosa che, nel momento stesso in cui si genera, in qualche modo accresce la realtà» e la amplifica, similmente a quanto scriveva in merito al ruolo della poesia Andrea Zanzotto. Inoltre va considerato come l’opera per un artista, anche quando mira ideologicamente a rompere le convenzioni assodate di un sistema, di un ragionamento o le semplici attese del destinatario, risponde inconsciamente anche all’aspettativa collettiva del suo agire, al suo ruolo sociale di elaboratore di contenuti.


Operare in strettissima prossimità o condividere lo scenario operativo e mentale in cui l’opera viene prodotta, come quella da svariati anni accade a Silvia Vendramel e Beatrice Meoni, implica la disponibilità alla contaminazione e la parziale cessione di sovranità dell’essere autore, che si concretizza in un’estesa area di negoziazione territoriale e in continui movimenti di posizione. Benché il soggetto autore non sia certo un monoblocco omogeneo e coerente, procedere per deviazioni generate dall’altra persona è un esercizio di abbandono, ripensamento, perdita e riappropriazione che determina il superamento della forma burocratica dell’identità in direzione della sfumatura, della difformità rispetto ad un pensiero che (ri)produce in forma compiacente se stesso. Lo specchio dell’artista, talvolta, può è essere un dispositivo capace di generare immagini in movimento.