Space as a duty of care
Simon Callery, Anneke Eussen, Jacopo Mazzonelli, Goran Petercol, Silvia Stefani

Studio G7, Bologna
aprile ― settembre 2023

Considerazioni su quello che ci circonda
Daniele Capra




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La parola spazio deriva dal sostantivo latino spatium, il quale, a sua volta, è prossimo al verbo patere, che significa “essere aperto”, e la radice sanscrita spa-, con il senso di “estendere” e “crescere”. Tale parola ha inevitabilmente in sé il senso di dilatazione, ampliamento o estensione, quindi strettamente connessa all’idea di ciò che è non limitato e non dotato di confini. Spazio è, quindi, astrattamente un luogo generico, non definito e di ampiezza infinita, nel quale possono trovare posto gli uomini, gli animali, le piante, le cose, gli oggetti, le rocce, il mare. Esso è, in buona sostanza, tutto quello che esiste in quanto dotato di una forma e di un’estensione tridimensionale. Anticamente la geometria è nata proprio dalla necessità di misurare, dare una collocazione topologica, confrontare dimensionalmente e qualitativamente tutto ciò che occupa una porzione di spazio. L’arte plastica, invece, ha indagato lo spazio attraverso differenti modalità di restituzione adottando forme simboliche, ideali, mimetiche e funzionali, le cui fondamenta sono state messe in discussione solo nel secolo appena passato.

2
Siamo immersi nello spazio, qualunque sia l’idea che di esso abbiamo. È spazio tutto quello che ci circonda, il vuoto tra noi e gli oggetti che vediamo, “inabissati nell’infinita immensità degli spazi che ignoriamo e che ci ignorano” (Pascal, Pensieri, 64). Lo spazio è astrattamente il luogo del visibile e dei fenomeni, ma abbiamo bisogno di addomesticarlo e viverlo per possederlo nelle sue più infinitesime articolazioni. Pur essendo consci che lo spazio sia infinito, siamo abituati a percepirlo e leggerlo solo attraverso gli elementi finiti che lo abitano, poiché sono facilmente decodificabili. È spazio occupato, chiuso e delimitato il nostro stesso corpo che contiene i nostri organi e i nostri pensieri, e il volume di tutto quello che esiste che è semplicemente altro da noi. È spazio libero e aperto ciò che invece è di mezzo, quella spugna invisibile, comprimibile e infinita che intuiamo esista e adattiamo alle nostre più diverse umane esigenze: pur delimitano la nostra finitezza, è infatti il necessario tessuto connettivo tra noi e tutto ciò che esiste.

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Nella common law anglosassone il duty of care è il principio che prevede la responsabilità di prendersi cura di ciò che accade a qualcuno o a qualcosa. Esso rappresenta l’obbligo di diligenza nei confronti di persone, oggetti e luoghi, e incarna il dovere di cura e rispetto per quello che esiste. Nel contempo il concetto testimonia il naturale e diretto coinvolgimento delle persone nelle situazioni e nel contesto: è una forma di attiva partecipazione a ciò che è comune, in cui l’individuo si fa carico di agire nel rispetto dell’ambiente in cui è immerso. Il duty of care presuppone un’attenzione verso la comunità, la sua storia, i manufatti che ha creato, gli ambienti che ha modellato, le leggi e i valori che la tengono unita. È una nozione agli antipodi dell’homo homini lupus e testimonia un pensiero che riconosce implicitamente che l’individuo è parte di una collettività, la quale è essa stessa un bene. Tale principio, inoltre, è una vera e propria assunzione di responsabilità individuale sotto forma di attenzione preventiva. Come membro di una comunità, infatti, sono tenuto ex ante alla cura verso l’altro, e non solo a rispondere ex post agli eventuali danni che possono derivare da mie azioni: l’individuo ha l’obbligo morale di una vigile attenzione.

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La realizzazione di un’opera è un atto additivo rispetto a tutto ciò che pre-esiste. La quasi totalità degli artisti avverte la naturale esigenza di accrescere il mondo attraverso le proprie attività espressive, producendo concretamente un’opera nuova che prima non esisteva. In questo modo viene aggiunto un addendo alla sommatoria di infiniti addendi che già costituiscono il mondo; con la loro opera, gli artisti incrementano non solo banalmente il numero di oggetti manufatti dagli uomini, quanto le possibilità interpretative rispetto alla realtà e la nostra condizione umana. Inoltre è fondamentale capire che se generalmente gli artisti producono opere, solo i bravi artisti producono nel corso della loro vita opere consapevoli e necessarie (naturalmente tutta la valutazione ha ampi margini di soggettività, ma questo non inficia il principio). Un’opera necessaria, qualunque siano le ragioni che l’hanno generata, è di per sé un’azione di responsabilità di fronte al mondo. Se così non fosse, dovremmo semplicemente considerarla come un manufatto ordinario e convenzionale, con funzioni scarsamente significative, poiché non risponde agli altri, alla collettività, ma solo alle sue stesse esigenze. Un’opera necessaria, invece, continua a generare in noi le domande dalle quali essa stessa è nata, continua cioè a interrogarci come un ragazzino impertinente assetato di conoscenza.

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Il senso di responsabilità di un’opera può derivare da diversi fattori: le riflessioni da cui è nata, il suo linguaggio, il processo che l’ha prodotta, i materiali e le modalità con cui è stata formalizzata, nonché le sue stesse capacità di parlare. Qualunque sia la combinazione di tali elementi, la sua forza sta nell’essere una presenza di instabilità o discontinuità rispetto al tessuto dell’ordinario. La responsabilità ha infatti anche a vedere con una forma sottilissima d’imprevedibilità: l’ontologicamente nuovo non può essere semplice contenuto dislocato, ma deve profumare di qualcosa che prima non conoscevamo, che non si era manifestato o che non era rilevabile (e naturalmente la novità non può essere essa stessa il solo contenuto).

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La mostra space as a duty of care raccoglie lavori di natura tridimensionale di Simon Callery, Anneke Eussen, Jacopo Mazzonelli, Goran Petercol e Silvia Stefani, la cui pratica può essere letta come un reiterato atto di responsabilità verso lo spazio e di attenzione a cosa in esso può accadere. Nella pratica dei cinque artisti, benché caratterizzata da genesi e metodologie differenti, il principio del duty of care esemplifica come lo spazio possa essere il luogo del possibile, del rigore e della cura. Le opere – accomunate dalla tensione verso l’analisi formale e concettuale dello spazio – sono azioni di consapevolezza nei confronti delle tre dimensioni in relazione alla materialità, al volume, all’ordine, alla superficie, alla struttura e al limite fisico dei materiali.

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Se lo spazio è, per sua natura, astratto e generico, l’interesse, la cura e il senso di responsabilità da parte dell’artista lo rendono non tanto un soggetto in sé, quanto piuttosto un campo da gioco rispetto cui misurare le proprie indagini. È un luogo in cui si può sperimentare, un’estensione apparentemente illimitata del proprio studio, dove poter proporre i propri dubbi o testare le proprie grammatiche. In questo modo lo studio si estende diventando ambiente sconfinato da condividere con l’osservatore. Lo spazio è il luogo della verifica, dell’interrogazione in continuo divenire.

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La ricerca di Simon Callery nasce a partire dall’analisi del paesaggio, la cui presenza viene evocata attraverso la materialità della pittura. Il paesaggio diventa nelle sue opere uno spazio di tessuto dotato di volume che condensa l’esperienza della visione in una forma minimale dotata di elementi ricorsivi. Le sue opere sono una sorta di anomalo calco visivo ricomposto attraverso una forma tridimensionale. L’artista non si limita alla “emotion recollected in tranquillity” di cui parlava Wordsworth, ma traduce la visione in spazio ulteriore, in forma espressiva assoluta, poetica e silente.

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Le opere di Anneke Eussen sono spesso realizzate con materiali di risulta prelevati da un contesto e ricombinati senza alcun vincolo rispetto alle loro peculiarità funzionali. In tal modo l’artista conferisce un nuovo ordine agli oggetti che vengono dotati di una nuova semantica e di un ritmo visivo inatteso. Nel suo processo Eussen ritrova un posto e una dignità a quello che era materia abbandonata, periferica e destinata a non essere vista. La sua cura è un riportare all’attenzione ciò che non avremmo mai guardato, rendendo possibile il totale ribaltamento del destino delle cose materiali.

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La pratica di Jacopo Mazzonelli indaga gli aspetti della musica, del suono e della memoria per assenza, alludendo alla prassi strumentale, al ricordo e ai segni che il tempo lascia sugli oggetti. Le sue opere sono un deliberato atto di astensione dal mondo, in cui la tensione è data dal rigore del silenzio e dallo spasmo dall’attesa. Lo spettatore immagina il suono, misura l’intensità del tocco o la distanza degli anni, in una condizione di sospensione. È un’orchestra che suona, con il direttore che dirige, ma non si sente alcuna musica, costringendo chi guarda a immaginare e ascoltare con gli occhi.

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La radicale sintesi dei concetti è uno degli elementi centrali nella poetica di Goran Petercol, i cui campi d’indagine spaziano dalla semiologia agli aspetti formali dell’agire artistico. Con un linguaggio nitido ed essenziale egli investiga la grammatica delle cose, la luce, l’ombra e le possibilità topologiche offerte dagli oggetti, che nelle sue mani diventano domande aperte rivolte all’osservatore. Sintetizzando ogni aspetto con una logica rigorosa, Petercol indaga le strutture concettuali che sottostanno al reale, gli elementi che lo compongono, rivelando la parte invisibile del visibile.

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Il corpo e la postura sono gli elementi generativi delle opere di Silvia Stefani, la cui pratica esplora le dinamiche della tensione e del limite fisico dei materiali. I suoi lavori – modellati sovente sulla metrica del corpo umano – sono dotati di una forte carica visiva e psicologica originata dal continuo alternarsi di linee rette, segmenti spezzati e angoli aperti. Le sculture sono dotate di una fisiologia anomala, in cui si alternano elementi strutturali funzionali e parti che rispondo a una logica puramente espressiva. I titoli delle sue opere evocano condizioni contraddittorie di libertà e di vincolo, di debolezza e forza, che trovano nella formalizzazione un possibile e rischioso equilibrio.