Claudio Bettio Taiabati
Falsa testimonianza

Vittorio Veneto, Palazzo Cesana della Riva, Festival Comodamente
settembre ― ottobre 2009

Limite alla rovescia
Daniele Capra




La gente crede nella realtà della fotografia, ma non in quella della pittura; il che dà un enorme vantaggio ai fotografi. Sfortunatamente, però, anche i fotografi credono nella realtà della fotografia. [*]


Per correttezza intellettuale e deontologia professionale non si dovrebbe mai riferire – in saggi, articoli di giornale, o simili – di fatti e situazioni in cui si è coinvolti in prima persona. Il che mette chi scrive in uno stato di piccolo imbarazzo, avendo anch’egli preso parte alla campagna fotografica del festival Comodamente prestando la propria immagine per uno degli scatti. Eppure questa è in realtà una condizione assolutamente favorevole, dato che permette di essere narratore interno e per certi aspetti esonera dalla necessità di fingersi distaccato narratore onnisciente; e permette inoltre di raccontare il modus operandi dell’autore avendolo testato: è un po’ come parlare di un chirurgo dopo esserne stato sotto i ferri ed averne sperimentato abilità tecniche e modalità di guarigione.

Le foto di Comodamente sono state concepite nei cinque-sei mesi antecedenti l’evento, a partire da alcuni dei temi principali del festival. Il committente aveva cioè assegnato a Taiabati l’incarico, ma il fotografo aveva sostanzialmente in mano solo il titolo per ciascuna immagine, non disponendo in nessun modo del messaggio da comunicare. Inoltre era assolutamente libero l’approccio e la modalità, poiché nessun vincolo di registro o di stile, se si eccettuano l’uso del bianco e nero e la necessità di uno sfondo chiaro per esigenze tipografiche. La scelta quindi ammetteva uno spettro molto amplio, con modalità o approcci che potevano essere di natura suggestiva, allusiva, ed ovviamente elusiva. I gradi di libertà e l’adeguamento a delle aspettative di utilizzo delle immagini per una campagna comunicativa con dei criteri standard, erano cioè a completa discrezione del fotografo.

La scelta operata da Taiabati è stata semplice: il rasoio di Ockham. Tagliare cioè gli aspetti più intricati ed intellettualistici e pensare ad immagini non tanto dal vero, bensì da realizzare in set fotografici. Fare cioè dei ritratti di persone che mostrino delle tipologie o dei personaggi riconoscibili, perché in qualche modo legati al nostro immaginario, oppure costruire delle immagini che comportino uno spiazzamento di chi guarda. La foto principale della campagna – quella utilizzata nei manifesti e per la promozione – mostra ad esempio un ragazzo punk con occhiaie che denunciano passioni lisergiche inconfessabili; un’altra un qualsiasi Gesù con stimmate, aureola, ma reca in mano il Corano, testo sacro alla religione (per dirla irriverentemente) della quale non è testimonial. Potremmo scegliere così altre foto ed applicare lo stesso paradigma, mentre altre sono costruite sull’effetto della sorpresa (come ad esempio il caso della ragazza appesa per i capelli): lo spettatore cioè percepisce degli elementi  di anomalia e di discontinuità che creano un cortocircuito, cui fa seguito l’inevitabile ricerca di altri dettagli per dare un senso compiuto all’immagine, nel tentativo di ricondurla nel campo del noto e dell’ordinario. Il meccanismo quindi è quello – già rodato in fotografia e nel cinema a partire dalle avanguardie dada e surrealiste del secolo scorso – di assegnare a chi guarda l’incarico di ricostruire un rebus che precedentemente è stato messo a punto.

Ma uno degli aspetti più peculiare del lavoro di Taiabati è la conduzione del set, momento nel quale avviene una strana relazione tra le persone che stanno di fronte e colui che sta dietro l’obbiettivo. Tutto nasce dal tipo di rapporti che intercorrono: i soggetti sono amici e parenti, talvolta strettissimi (la figlia, la moglie), che il fotografo coinvolge in un progetto di natura relazionale, chiedendo la collaborazione alla recita ad un teatrino appositamente allestito: non è più, cioè, pretendere da uno sconosciuto una prestazione corporea, quanto coinvolgere una persona nota in un progetto proprio. In una nota intervista a Tullio Kezich, Federico Fellini raccontava come avesse bisogno di essere amico degli attori che dirigeva: per avere il feeling necessario, per chiedere a loro qualche particolare espressione, doveva mangiare, ridere, andare in giro con loro. Solo così, ad esempio, Marcello Mastroianni poteva essere perfettamente il suo alter ego da rendere complice in una recita di fronte le lenti della camera. Per Taiabati la sensibilità è la stessa: il grado di interesse e di collaborazione amicale con il soggetto ne permette il completo coinvolgimento. La regia è presente, ma occulta. E la sensazione, per esperienza personale, è quella di sentire che il personaggio che si interpreta per lo scatto, è realmente altro da sé.



[*] Duane Michals, Real Dreams. Photostories, Addison House, 1976.