Teresa Mayr
I don’t want to be an onager

Premio Trieste Contemporanea
Studio Tommaseo, Trieste
maggio ― settembre 2020

TestoConversazione con Teresa Mayr
Sotto la superficie
Daniele Capra



La vita è una linea, il pensiero è una linea, l’azione è una linea. Tutto è linea. [1]



Dentro il mondo
Il disegno è una pratica artistica che si fa orizzontalmente rispetto al mondo, in una condizione di immersione nel contesto visivo, sia quando viene eseguito dal vero, cioè in presenza del soggetto, che in forma espressiva libera, fantastica o progettuale. Al contrario, la pittura viene creata – generalmente – verticale e originata per selezione, per isolamento o confinamento; la scultura (o la performance) si genera per deambulazione, rotazione, movimento nello spazio. Il disegno invece è stasi, è silenziosa somma di continue sintesi che sono attuate sulla superficie attraverso le linee. Il metodo è cioè rigorosamente additivo, incrementale, a partire dal bianco, dal vuoto. Come scrive Manlio Brusatin, “in principio c’è una linea all’orizzonte, quando prima non c’era quasi nulla. E dopo c’è un alto e un basso, un destra e un sinistra, un dritto e un rovescio, un principio e una fine: l’accerchiamento della nostra stessa vista.” [2] Il disegno arriva cioè, per gradi, a costituire un orizzonte visivo che si aggiunge, si sovrappone e si interseca con quello in cui siamo immersi. Un orizzonte visivo che è in grado concettualmente di ordinare, disporre, creare un ordine ulteriore, mettere in piedi un sistema di relazioni. Il disegno è quindi pratica estensiva rispetto alla realtà poiché – grazie alla semplificazione del rumore di fondo che attua, alla sintesi che deriva dalla sua stessa natura – riesce a implementare il campo semantico del contesto, a estendere le sue potenzialità di innesco.


Lo sfondo e le linee
Disegnare ha a che fare con lo stabilire una relazione tra la parte coperta dal segno e la carta che lo ospita, la quale deve necessariamente rimanere (almeno in parte) vuota. Disegnare infatti vuol dire non solo “strisciare” una superficie con uno strumento in grado di lasciare una traccia, ma anche avere l’accortezza che la superficie rimanga in molte aree libera. Come osserva acutamente Walter Benjamin, “la linea delimita l’area, e in questo modo la definisce connettendosi con essa come suo stesso sfondo. Al contrario la linea può esistere solamente in contrasto con questo sfondo […]. La linea conferisce un’identità al suo sfondo. L’identità dello sfondo di un disegno è significativamente diversa da quella della superficie bianca sulla quale è inscritta.”[3] Nel disegno avviene quindi una semantizzazione di una parte della superficie il cui effetto è però in grado di estendersi anche alla parte non direttamente interessata dall’intervento: in tale modo, pur non subendo alcuna azione diretta, lo sfondo diventa esso stesso portatore di significato, essendo controparte della linea. Fare un disegno vuol dire cioè negoziare i rapporti visivi, psicologici ed espressivi tra le linee e lo sfondo. Il primo personaggio è visibile e parla in scena perché è stato “scritto” direttamente dall’autore, il secondo è invece silenzioso, presente concettualmente ma in absentia, perché garantisce alle altrui parole lo spazio per essere pronunciate e udite.


Svelamento e cronologia
Al contrario della pittura – che è medium di occultamento poiché consente all’autore di ripristinare stati precedenti dell’opera, di cancellare o di nascondere ciò che c’è sotto (e spesso sappiamo, anche dalla storia dell’arte, come sotto un dipinto frequentemente ne giacciano altri, incompiuti) – il disegno è pratica di rivelazione e di ricerca della “verità”, dato che tiene traccia di tutti i cambiamenti che avvengono sulla superficie, dei pentimenti, delle incertezze o dei tentativi. È come se rivelasse all’osservatore: “tutti i passi che ho fatto nella mia vita mi hanno portato qui, ora.”[4] Il disegno è cioè, per sua stessa natura, svelamento, epifania di se stesso, poiché mostra la storia della propria identità, gli stadi intermedi, la successione dell’evoluzione, le cicatrici di tutti quei combattimenti che hanno portato alla sua condizione finale. Esso è infatti temporalmente mono-verso, e la sua cronologia è agli occhi di chi guarda sempre disponibile, sempre intellegibile.


Teresa
Penso a tutto questo, quando guardo l’opera di Teresa Mayr. Penso al suo essere dentro il mondo parlando delle città (quelle reali e quelle invisibili) e degli spazi di confine tra intimo e pubblico. Penso al dipanarsi delle linee – fatte a matita o pennarello – sulla superficie, nel silenzio della carta bianca che viene progressivamente abitata dai segni grigi o colorati, in una condizione di estrema rarefazione. Penso al suo svelare porzioni di contesto urbano in un forma cartesiana, in cui tutto è intellegibile e ogni elemento conta in uguale misura, senza alcuna gerarchia tra i segni sulla carta.
E poi penso all’immediatezza, al pensiero che si fa sulla carta mescolando situazioni reali, luoghi che esistono o esistevano, con frammenti di città immaginate. Un pensiero che è continua variazione e che si costruisce nella stessa esecuzione, poiché, come ebbe a dire Richard Serra, “qualsiasi cosa si possa immaginare nella forma espressiva di un disegno – idee, metafore, emozioni, strutture linguistiche – essa deriva dall’atto [stesso] di eseguirlo.” [5] Nel lavoro di Mayr non c’è distanza, quindi, tra pensare/immaginare e l’azione di disegnare, poiché quest’ultima genera la prima: le ragioni intellettuali e le funzioni espressive sono intimamente e ontologicamente contenute nell’esecuzione. Disegnare è in ultima istanza una pratica che include il pensiero su essa stessa: ha coscienza di sé, è autoriflessiva.
Ma quando guardo le opere di Mayr penso al suo stile immaginifico e anarchico, in punta di piedi. Penso alle combinazioni di linee che entrano in dialogo sulla carta e che ambiguamente si mostrano, quando la luce è radente, o si negano, quando invece la superficie riflette metallicamente la grafite. Ma è quasi impossibile cogliere il disegno nella sua interezza, per la numerosità degli elementi, per l’estrema abbondanza di particolari. Pur possedendo la sintetica asciuttezza del disegno architettonico, i dettagli richiedono infatti all’osservatore una lettura attenta e sempre parziale, dato che non esiste una gerarchia nella composizione, nel tratto o nel chiaroscuro: le linee si distribuiscono cioè sul foglio per coordinazione sintattica, in forma liberamente paratattica.


Essenzialità, intimità, confine
La pratica artistica di Mayr è caratterizzata dall’uso esclusivo del disegno, che è una disciplina minimale anche negli strumenti impiegati. Matite, colori, pennarelli, semplice carta: non c’è davvero bisogno di altro, il non necessario è totalmente superfluo. Tale disciplina consente infatti all’artista di concentrarsi sull’ideazione e sul pensiero, il quale accade e si avvera nell’azione del disegnare, registrando in questo modo sulla superficie gli elementi visivi primari, l’essenza. C’è in tale processo un doppio livello di intimità: quello dovuto alla tecnica esecutiva, dato che il disegno è il prodotto di una estensione del braccio nelle vicinanze del corpo dell’artista, e quello riferito al soggetto, alla lettura che l’artista fa dei fenomeni urbani attraverso una continua indagine visiva sulle strade, sui marciapiedi, sui parchi, sui giardinetti, sui negozi. Sono questi, infatti, gli spazi di confine tra la sfera personale e quella pubblica, tra ciò che viene modellato personalmente dall’individuo e ciò che viene invece gestito dalla città, dagli amministratori, dal mercato, dalla natura o anche dalla casualità. Il lavoro di Mayr analizza le diverse funzioni attribuite ai luoghi, i legami emotivi che ne determinano la familiarità o l’estraneità, il rispetto, l’indifferenza o la trascuratezza. I suoi disegni scandiscono la mutazione degli spazi urbani, le tracce della loro evoluzione nonché le modificazioni e i micro-cambiamenti che avvengono nei luoghi in cui le funzioni di individuo e di cittadino si sovrappongono e si intersecano. La città, le dinamiche urbane e il contesto socioeconomico non sono così semplicemente degli sfondi, dei contesti in cui accade qualcosa, quanto invece i reali soggetti.


Campionamenti
Per la realizzazione delle opere l’artista ricorre a dei veri e propri campionamenti nell’area urbana, che avvengono in prima persona passeggiando nella città o cercando immagini su internet, sui social network o su Google Street View (dove, nonostante la sempre più fitta mappatura e il più stretto controllo esercitato, le viste sono spesso obsolete). Tali fonti vengono confrontate e poi ricombinate dall’artista, alla ricerca dei probabili stati intermedi dei luoghi o immaginandone le possibili evoluzioni. Immagini reali si mischiano con la loro probabile memoria o il loro futuro potenziale: la finzione realistica e la realtà fattuale si compenetrano fondendosi, e in questo modo “molte linee crescono e diventano un muro ordinato di pietre, una città viva o morta.” [6] Il disegno raccoglie così l’effetto di tutte le variabili antropologiche, psicologiche e socio-politiche, ma registra ugualmente le aspettative o la volontà di un possibile cambiamento, diventando uno strumento inaspettatamente politico, di “gestione del conflitto” [7], di critica, o di proposta.




[1] M. Brusatin, Storia delle linee, Einaudi, Torino, 1993, p. 22.
[2] M. Brusatin, op. cit., p. 10.
[3] W. Benjamin, Selected Writings, Volume I (t.d.A), Cambridge, Harvard University Press, 1996, p. 83.
[4] Ho preso in prestito il titolo di una delle più significative opere di Alberto Garutti, la quale, a dire il vero, non ha alcuna relazione diretta con la pratica del disegno. Tutti i passi che ho fatto nella mia vita mi hanno portato qui, ora è costituita da una scritta su pietra collocata sulla pavimentazione pubblica in maniera tale che un passante casuale possa leggerne le parole. L’intervento, dal vago sapore esistenzialista, è stato riproposto dall’artista in diversi contesti urbani in Europa a partire dal 2004 ed è metafora della complessità e della stratificazione delle nostre vite.
[5] R. Serra, in L. Borden, About drawing: an interview (t.d.A), ora in Richard Serra. Writings, Interviews, The University of Chicago Press, Chicago, 1994, p. 53.
[6] M. Brusatin, op. cit., p. 13.
[7] Così si è espresso Paweł Althamer in un dialogo che ebbi con lui nel 2012, mentre era al lavoro presso la sua installazione Draftsmen’s Congress alla 7. Biennale di Berlino.

Non mi occupo di esseri umani
Una conversazione tra Daniele Capra e Teresa Mayr




Iniziamo dal principio. Com’è cominciato tutto? Quando hai deciso che saresti diventata un’artista?


Ho trascorso tutta la mia infanzia disegnando, dipingendo e costruendo. La questione per me era più che altro in quale modo e che tipo di artista diventare, se si esclude un breve periodo in cui avrei voluto fare la biologa marina. Alla fine delle scuole superiori la mia idea era di diventare una scenografa, ma, quando ho iniziato lo studio all’Accademia di Belle Arti di Dresda, mi sono resa conto che avrei invece preferito dedicarmi all’arte. A quel punto ho rapidamente cambiato l’orientamento dei miei studi iniziando a frequentare i corsi di pittura e disegno.


Il disegno è ora il tuo mezzo espressivo prediletto. Di solito il disegno è meno articolato ed è più veloce della pittura, dato che non c’è bisogno di avere uno studio o un luogo adatto per farlo, e si ha necessità solo della carta e di qualche semplice strumento come matite, pastelli, penne, ecc. Per secoli, nella tradizione occidentale, i disegni hanno avuto la funzione di essere uno schizzo, un appunto o una bozza, mentre nel tuo caso sono delle opere complete e concluse. In che modo il disegno è diventato così significativo per te?


Sono proprio questi fattori, l’aspetto immediato, semplice e intimo del disegno a essere attraenti per me. Sono anche interessata alla questione del dipingere nell’atto di disegnare: può cioè un disegno essere pittura? Perché non lo dovrebbe essere? Quand’è che i confini cominciano a confondersi? Ho affrontato questo aspetto in modo particolare nelle mie opere più recenti, nelle quali ho usato anche pastelli e pennarelli. Un’altra ragione per cui disegnare è per me importante è la sua sostenibilità: basso impiego di materiali, facilità nella conservazione e nel trasporto.


Di norma la pittura è basata sull’opportunità per l’artista di fare/cancellare/rifare alcuni degli elementi o anche l’intero lavoro. Possiamo immaginare la pittura come una pratica di aggiunta-sottrazione, come una camminata in cui puoi spostarti ma anche tornare alla posizione precedente. Il disegno, invece, è diretto e veloce, dato che l’artista non può ritornare a una fase antecedente, perché è come se stesse in una corsa corta e veloce. Ti piace lavorare in questa modalità? Come coniughi la rapidità del disegno con le sensazioni di intimità di cui parli?


Le mie immagini sono create attraverso un processo. Non c’è un reale progetto organizzativo o di costruzione (spaziale). Proprio questo processo esecutivo veloce e diretto richiede più di tutto di adeguarsi e di accettare il risultato, il che esclude la possibilità di tornare sui propri passi. La realtà che percepisco, compresi gli stessi sentimenti, è dal mio punto di vista costituita da una combinazione imprevedibile che è determinata da una moltitudine di possibilità. Similmente a come funziona il cubo di Rubik, eccetto il fatto che non viene a crearsi una faccia monocroma e che il numero dei piccoli cubi è praticamente infinito.


Quali sono le cose che più ti interessano?


L’arte, gli animali rari, la filosofia, i buchi neri, la criminalità, lo sviluppo urbano e l’architettura, le teorie in genere, il cinema, il teatro, i bar e, naturalmente, il mio nuovo cubo di Rubik!


Nella tua ricerca tu abitualmente mescoli tutti questi elementi come fossero gli ingredienti di un piatto. A mio avviso l’architettura e l’urbanistica sono i più rilevanti dato che hanno a che fare con temi più profondi e intimi, come la consapevolezza dello spazio, la psicologia, la casa o la vita privata. Consideri la tua ricerca come una pratica politica?


Il mio lavoro si occupa delle influenze che l’ambiente ha sulle persone, di come esse ne risultino modellate. Mi concentro sui cambiamenti e sulle decisioni, specialmente negli spazi urbani, che inevitabilmente influiscono sui movimenti e sul comportamento dell’individuo. In questo ordine di idee il tema dei miei disegni è fortemente politico, dato che riguarda essenzialmente il controllo e il condizionamento della progettazione e delle funzionalità degli spazi pubblici. E, di conseguenza, come la società ne sia modellata.


Le città e in generale la società sono il risultato delle negoziazioni tra differenti interessi, comportamenti, ideologie, storie personali e collettive. Ci si aspetta che siano il paradiso della diversità, ma sappiamo che non è così, dato che, benché viviamo in un sistema democratico, il potere non è ben equilibrato e i cambiamenti sono troppo repentini per essere facilmente governati. Come può la tua pratica aiutare l’osservatore a capire queste tematiche o a gestire il processo di cittadinanza attiva?


Quando si guarda una mia opera normalmente non si vede niente che non sia conosciuto. Ciononostante le scene che ho disegnato rimangono inabitate e deserte. Gli spazi funzionali sono privati del proprio scopo. È più facile argomentarne l’apparente e scontata necessità. Se si usa una scala mobile, probabilmente si può immaginare che vada troppo lentamente, che sia affollata e che le persone ci si lancino. Da un altro punto di vista se si attende in un pianerottolo da soli e una scala mobile inizia a girare verso di noi, ad allontanarsi o di nuovo ad avvicinarsi, tutto questo ci mette paura. Può assomigliare a un animale affamato, a una costruzione in qualche modo innaturale e assurda. Io vorrei creare la consapevolezza che una scala mobile, per rimanere nell’esempio, è un principio funzionale che è stato progettato, ma che a dire il vero non è una parte solida del terreno su cui camminiamo. Se si capisce questo le strutture e i sistemi (della società) sembrano più fragili e modificabili. E tale prospettiva può incoraggiare a innescare un cambiamento, a non prendere le cose troppo seriamente o a non esserne sopraffatti.


In senso più generale credo che le case deserte, le strade, i giardini o i negozi senza persone siano solo progetti non portati a termine o inutili. C’è un contrasto netto tra la le linee pulite a matita, quelle colorate e lo sfondo vuoto e minimale. Non avverti la malinconia o che c’è qualcuno o qualcosa che manca?


Sì, sono inutili. Questo è quello che ci dovrebbe indurre a pensare che una così grande porzione del nostro coltivato, civilizzato pianeta non ha senso se non viene usata dagli uomini. E, ribaltando il punto di vista, questo dimostra il nostro discutibile e antropocentrico approccio al mondo. Rispetto a questo contesto, trovo che le sensazioni malinconiche sono del tutto benvenute!


Come scegli le viste delle tue città? Come metti insieme nelle tue opere le tue esperienze personali, come cittadino o come pedone, con le più anonime e impersonali immagini che trovi su Google o sui social network?


Le immagini che trovo on-line hanno la medesima funzione delle strutture negli spazi pubblici. Le piattaforme digitali standardizzano le immagini personali e soggettive in forma di contenuto, esattamente allo stesso modo in cui lo spazio fisico pubblico e le infrastrutture sono organizzate. Nei miei disegni fondo questa vista, apparentemente obiettiva, con la mia propria prospettiva e le mie memorie in immagini costruite e fittizie. Il processo realizzativo risulta in questo modo intuitivo e fluido.


Ma nelle tue opere le case sono disabitate, i negozi, gli spazi e i giardini sono vuoti. Esseri umani e animali sono scomparsi o forse fuggiti da qualche altra parte. Perché hai scelto di nascondere la loro presenza?


Perché nel mio lavoro non mi occupo di esseri umani…