Marco Godinho, VOID
Tigers in Flip-Flops

Mestre Venezia (I), Galleria Massimodeluca
settembre ― ottobre 2017

TestoMarco GodinhoVOID
In ciabatte
Daniele Capra




Una celebre foto di Robert Capa ritrae Henri Matisse in studio di fronte ad una sua opera mentre, con un lungo bastone che usava impiegare al lavoro, indica il profilo di una donna abbozzato sulla carta. Il pavimento è foderato di pagine di giornale per proteggere il parquet dal colore. L’artista, ormai vecchio, indossa un gilet di lana, un paio di pantaloni scuri e ha la sigaretta in bocca. Gli abiti, lo spazio ampio ma scarno, gli conferiscono un tono concentrato ed intenso. C’è un elemento però, poco visibile, che dona un tocco di grazia alla figura imponente di Matisse, un inatteso guizzo di levità che viene dal basso: il pittore infatti è in ciabatte, senza calzini. Il suo corpo austero, quasi ieratico, contrasta infatti con le dimensioni ed il colore pallido dei suoi piedi nudi.
Proprio quel dettaglio conferisce un doppio senso di forte intimità: rispetto al luogo in cui l’artista lavora, che appare essenzialmente più come una casa abitata che un vero e proprio studio; ma soprattutto rispetto alla sua pratica artistica stessa, la pittura, che diventa una vera e propria estensione della vita. Dipingere o, in senso più largo, essere artisti – ci suggerisce forse inconsapevolmente Matisse – sono esattamente la stessa cosa: l’arte trova il suo senso solo all’interno del fluire delle nostra vita, che è fatta di eventi importanti, ma anche di sigarette fumate in studio indossando le ciabatte.


Questa foto mi è tornata in mente riguardando nel mio computer le immagini della terza edizione di Darsena Residency, ospitata dalla Galleria MassimoDeLuca a Mestre, che ho avuto il piacere di seguire come curatore nel mese di luglio 2017. Per quel mese ho condiviso molto del mio tempo con gli artisti Marco Godinho, Arnaud Eeckhout e Mauro Vitturini del duo VOID, che hanno fatto ricerca, dormito, mangiato, parlato, bevuto, sperimentato e quant’altro in galleria. Quel luogo, quello spazio costituito da due vani equamente divisi, e poi un terrazzo, che guarda verso una darsena in cui si fa manutenzione e riparazione delle barche, sono stati il centro della loro e della mia vita. Centro nodale che ha sovrapposto il flusso del tempo e dei corpi di noi quattro con quelli della direttrice della galleria Marina, e con le collaboratrici Eva e Chiara, con le quali sono stati condivisi in parte spazi, tempi, idee e soluzioni possibili.


Intuitivamente una residenza per artisti è solo una traslazione geometrica, in un determinato tempo, di persone da un luogo ad un altro, da un punto sulla terra ad un altro. Ma sarebbe stupido considerarlo solo un fatto di uno spostamento topologico. I luoghi infatti non sono tutti uguali: le città hanno ragion d’essere differenti, sono il frutto dell’infinita somma di storia, interazioni ambientali, sociali, culturali ed economiche. E poi la mentalità, il modo di lavorare, il cibo e tutto il resto.
La residenza è uno strumento nato con la modernità. È da poco più di duecento anni, infatti, che andare altrove è diventato un fatto centrale nella vita d’artista. Prima come viaggio per conoscere ciò che è lontano dai propri occhi (l’antichità, la mitologia, il mare, la luce), poi sempre di più come mezzo dedito alla ricerca di nuovi stimoli, nuove relazioni, nuove opportunità. Inoltre le trasformazioni epocali che hanno cambiato il mondo dall’ultimo dopoguerra hanno reso la residenza elemento ancora più importante per consentire all’artista di assorbire ulteriori stimoli, ulteriori fattori di cambiamento. La residenza agisce cioè come un fattore moltiplicativo rispetto alle possibilità che un artista ha di svolgere una ricerca o mettere a punto la propria pratica. La residenza, il fatto di dover reagire a nuovi impulsi, contribuisce infatti a suggerire all’artista ulteriori approcci, ad aumentare le facce del proprio poliedro espressivo.


La mostra Tigers in Flip-flops raccoglie gli esiti della residenza di Marco Godinho e dei VOID condensati in una quindicina di opere concepite nella città lagunare – sviluppate cioè anche a partire dagli stimoli visivi, storici, culturali ed antropologici del territorio – che spaziano dalla scultura in vetro alla fusione in stagno, dalla fotografia all’installazione ambientale di sound art, dal gioiello al neon, finanche all’uso concettuale della parola scritta.
Il titolo della mostra, smaccatamente ironico, è ispirato alla vita quotidiana trascorsa dagli artisti negli spazi della galleria. La vita di un artista, come quella di chi scrive o di qualunque altro lavoro intellettuale svolto nell’intimità, è fatta di parte pubblica, di relazioni e appuntamenti urbani in cui si sta attenti a come presentarsi o ad usare le parole più adatte e graffianti. Ma anche di piedi scalzi, di birrette sorseggiate a torso nudo in tranquillità, di giornate trascorse a leggere ed ascoltare musica in poltrona, o a scrivere, in mutande, davanti al computer.
L’ossimoro «tigre in infradito» non ha una motivazione di ordine espositivo, bensì allude alla condizione complessa ed ambigua dell’essere artista continuamente in bilico, chiamato a resistere alle difficoltà materiali e a cercare di superare intellettualmente le pastoie del presente. È metafora della sfida, del tentativo di un balzo felino come «divampante fulgore nelle foreste della notte»  [*], con la complicazione, esistenziale e poetica, di essere come Matisse nel proprio studio. A piedi nudi in ciabatte.




[*] W. Blake, The Tyger, in Songs of Experience, traduzione di G. Ungaretti, Mondadori, Milano, 1996.

Marco Godinho

Daniele Capra




A slight change in direction nasce accostando insieme, in maniera casuale, un paio di scarpe con un ramo d’albero trovati da Godinho rispettivamente nei dintorni della galleria e nella laguna veneziana. Elementi distanti – uno frutto del lavoro dell’uomo, l’altro opera della natura – la cui combinazione produce all’osservatore l’effetto visivo di uno spostamento, di un lungo passo verso destra. Di seguito, ed in modo del tutto accidentale, l’artista ha scoperto che lunghezza dell’opera è antropometricamente identica alla misura di un proprio lungo passo.


Ragiona sulla percezione psicologica della geografia la coppia di neon Going south is not the same as going north / Going north is not the same as going south di Marco Godinho, che sono orientati in modo che lo spettatore, mentre guarda l’opera, abbia gli occhi rivolti verso il punto cardinale indicato dall’opera stessa (e cioè rispettivamente verso sud e nord). Il lavoro racconta, con una tautologia linguistica, come il nostro punto di vista e la nostra collocazione siano fondamentali non solo nella lettura topologica, ma anche nella costruzione culturale che abbiamo del nostro orizzonte.


Home is no longer warm è foglio di carta collocato su una finestra sul quale sono ritagliate le parole del titolo stesso, in mondo da lasciar passare, quando c’è sole, la luce. Questo genera sul muro della galleria una scritta che si muove a seconda del ciclo stagionale e delle condizioni atmosferiche esterne. L’opera mette in relazione la presenza esterna della luce con l’intimità delle mura domestiche in modo leggero e, nella suggerita assenza di calore interno, quasi malinconico.


I misteri delle origini della vita è la prima pagina di un libro divulgativo pubblicato dall’editore Ferni di Ginevra, molto diffuso negli anni Settanta, che l’artista ha ricoperto con penna a sfera, rendendo difficoltosa la lettura del titolo. In questo modo i misteri di cui parla il titolo sono resi misteriosi anche visivamente, realizzando una piena unità tra forma e contenuto.


In Lunar Cycle Marco Godinho mette in relazione la propria permanenza a Darsena Residency con il ciclo lunare dei giorni trascorsi a Mestre. Sulla prima pagina di ventinove copie del Gazzettino (comprese dal 9 luglio al 6 agosto 2017) l’artista ha infatti disegnato la luna visibile dal luogo in ciascun giorno, andando a comporre una serie completa tra due lune piene. La parte che raffigura la luna consente di vedere le notizie del giorno, qualche titolo o ritaglio di articolo, mentre quella del cielo è blu scura, ricoperta da migliaia di tratti realizzati con la penna a sfera. Così, poeticamente, mentre il cielo tace, la lune rivela qualcosa della nostra condizione umana.


The Mediterranean Sea as a suspended territory è un lavoro costituito da due orecchini in filo d’oro con la forma del Mar Mediterraneo, che durante l’inaugurazione saranno portati dalla direttrice della galleria. L’opera allude all’inestricabile rete di relazioni – culturali, economiche, sociali – che lega le persone che si affacciano su questo mare, che gli accadimenti geopolitici degli ultimi mesi sembrano farci dimenticare. È insieme un monito alla nostra condizione e un auspicio al cambiamento.

VOID

Daniele Capra




Il suono della voce umana è invece l’elemento di partenza per Au claire de la lune, scultura che i VOID hanno realizzato sulla spiaggia, dopo aver inciso sulla sabbia la propria voce che canta la celebre canzone francese, grazie ad una apposita attrezzatura costruita sui modelli di fonautografo impiegati nella seconda metà dell’Ottocento per registrare il suono. Il solco è stato poi riempito con dello stagno fuso e la traccia sonora è diventata un’articolata scultura di metallo sulla cui superficie si leggono le increspature della voce. Au claire de la lune tiene inoltre traccia del movimento spaziale effettuato dagli artisti e, in maniera forse ancora più significativa, del tempo, nel suo sviluppo ordinario e lineare, di cui diventa un calco. L’opera è così, insieme, suggestione di come la voce si possa condensare in metallo e documento/prelievo di passato.


La serie di sculture Glasswork, realizzate dai VOID, nascono dall’idea di adoperare il suono per la modellazione del vetro secondo le tecniche di lavorazione tradizionali muranesi. Dopo essere state soffiate dal maestro vetraio, ancor calde, le masse di vetro sono state messe a contatto con delle superfici in metallo alle quali uno speaker trasduttore trasmetteva delle onde sonore. Tali onde hanno letteralmente plasmato la superficie, che si è impressa con la forma sinusoidale del suono. La materia vitrea, sulla quale in trasparenza si vedono le tracce, fissa così dentro di sé una vibrazione che si può accarezzare con i polpastrelli.


L’opera Orgue basaltique è realizzata utilizzando centinaia di strisce di lana di roccia, materiale impiegato in edilizia per le sue proprietà di isolante acustico e termico, che sono state allestite in galleria ricostruendo un fondale marino. Gli aspetti visivi si combinano così con le caratteristiche del materiale creando un mondo sommerso straniante, scomposto geometricamente in tante colonne che catturano il suono e il nostro sguardo, incerti tra oggettiva visione analitica e dettaglio immaginario fantastico.


Le fotografie della serie My microphone is a camera sono originate dall’analisi dei fondali della Laguna di Venezia realizzati con il sonar. Il sonar è uno strumento che consente di avere una mappatura spaziale di un luogo in base ai fenomeni di riflessione acustica cui sono sottoposte le onde che esso emette. Grazie ai dati messi a disposizione dall’Istituto di Scienze Marine del CNR, gli artisti hanno potuto così trasformare in immagine visibile le differenti porzioni di fondale lagunare mappate. I dati relativi alle onde di ritorno sono stati così trasposti, in forma bidimensionale, in fotografie che sono insieme tracce di suono e della superficie in cui terra ed acqua si toccano.