Gino Blanc
Escape from Space

Trieste (I), MLZ Art Dep
gennaio ― aprile 2016

Azzerando ogni possibile distanza
Daniele Capra




Il rapporto tra la vita di un autore e la sua produzione artistica è uno dei campi minati in cui tutta la critica d’arte – sin dai tempi di Giorgio Vasari – si è dovuta cimentare. La vexata quaestio verte sui legami di dipendenza, più o meno stretti, tra i dettagli biografici e l’evoluzione e gli sviluppi dell’opera. Quanto sono legati e connessi? O, al contrario, autonomi e svincolati? Quanto incide la vita sulla conduzione di un lavoro intellettuale? E, facendo un ulteriore passo, quanto l’arte è determinata da condizioni ad essa esterne e quanto invece è frutto di ciò che accade in interiore homine?
L’esperienza personale mi induce a dire che non ci sia un criterio valido che possa condurre ad una risposta certa, sopra ogni ragionevole dubbio. Vi sono autori per cui gli eventi della vita sono fondamentali per capire la loro ricerca, mentre ve ne sono altri per i quali tale correlazione non appare degna di nota o di particolare significatività. Per molti artisti opera e vita giacciono su due linee differenti, con scarse intersezioni, e modalità per cui sapere ulteriori dettagli biografici non porta ad alcun dato ulteriore. Per altri, invece, i due piani si mischiano fino a fondersi, al punto che ignorare l’uno comporterebbe la mancata comprensione dell’altro. Sin da quando ho avuto modo di conoscerlo, Gino Blanc mi è parso proprio uno di questi. Nel suo caso, infatti, la vita non è semplicemente quel che rimane dopo aver chiuso la porta dello studio.


La dolcezza. Fu questo a colpirmi di Gino quando lo conobbi di persona, in una situazione distante dalla vita professionale, ma piuttosto comune a Venezia: l’aperitivo pomeridiano in un pomeriggio d’estate, quando la canicola cede il suo assedio e consente alle persone di ritrovarsi in campo davanti ad un bacaro. È il regno dell’ombra, dello spritz – all’Aperol, al Campari o, come i meno scontati usano, al Select – e della ciacola. Ricordo perfino che parlammo di donne, con la morbida indolenza che è sua dote e che talvolta pure mi appartiene. Benché sia curatore, l’artista, invece, impiegai ben di più a conoscerlo, un po’ perché è bello che lo cose succedano naturalmente, e un po’ perché Gino caratterialmente non è persona che parla di sé, quanto invece un saggio stoico che lascia libero il destino di compiere il suo corso. Non c’è forzatura nella sua vita, nella sua arte, in amore: ciò che deve succedere accadrà, senza l’ansia che troppo frequentemente assale tutti coloro che pensano di essere completamente in grado di ordinare a tappe serrate la propria carriera (o di guidare in autonomia il proprio destino).

Il giorno in cui ci parlammo per la prima volta mi furono evidenti poche cose: che praticava in maniera quasi esclusiva la pittura e che era un uomo magicamente sedotto dalla presenza femminile, non solo quella erotica, ma anche nell’elemento della liquidità e della soavità. Altri dettagli non li ebbi, ma mi era chiaro che prima di entrare nel suo studio a confrontarsi, a ragionare e sragionare, avremmo parlato di altro. Di amici, di cibo, di fisiologia femminile e di porno, di viaggi e di film. Anche se lui è artista ed io curatore, il centro siamo stati sempre noi e la nostra esistenza. La vita, infatti, non è semplicemente quel che rimane dopo aver chiuso la porta dello studio.


Iniziai a conoscere il resto di Gino nei mesi successivi e ricordo di aver parlato per ore in occasione del matrimonio di Erica e Nebojša (Despotović), tra sarde in saor, mazzancolle, baccalà mantecato e danze balcaniche. E ricordo anche di discorsi fiume a Forte Marghera e le chiacchiere presso la residenza di Dolomiti Contemporanee. Ma il suo primo quadro lo vidi all’Accademia di Belle Arti di Venezia, molto tempo prima, coi fioi dell’atelier F. L’atelier F è l’enigma più insondabile della storia dell’Accademia veneziana, e alla sua provenienza sono legati quasi tutti i più bravi artisti che l’istituzione ha prodotto nell’ultimo ventennio. Quasi tutti pittori nella loro pratica professionale – o pittori nel modo di leggere il mondo – e tutti in maniera indissolubile legati alla figura di Carlo Di Raco, persona tra le più misteriose, insondabili e magnetiche che l’insegnamento delle disciplina artistica registri.
Sono dodici, ad esempio, gli anni trascorsi da Gino con Di Raco, poiché la frequenza di quegli spazi va ben al di là delle normali tempistiche accademiche. Gli allievi, infatti, continuano a lavorare in quei luoghi per anni, senza mai recidere il cordone ombelicale. Perché, come molti dei fioi, Gino ha un amore filiale per tutto ciò che è stato all’interno dell’accogliente utero di quel atelier, per il tempo trascorso lì lavorando. La vita, talvolta, non è semplicemente quel che rimane dopo aver chiuso la porta dello studio.


La prima personale di Gino, a Venezia, mi colpì per la molteplicità di approcci: la varietà del soggetto iconografico e poi l’adozione di modalità pittoriche differenti. Il cambiamento, come testimonia anche la mostra ospitata nella galleria di Marco Lorenzetti, è una sua cifra stilistica. Gino sa fare tutto e si prende il tempo per farlo, senza dover fingere compattezze di comodo. Egli ama, come direbbe Jannacci, vedere di nascosto l’effetto che fa. Senza il desiderio di stupire, ma con il piacere di essere egli stesso l’elemento di raccordo, rivendicando tra i suoi diritti inalienabili la libertà di un mestiere che è anche andare in cerca di quello che non si ha per poi successivamente provarlo sul campo. Il piacere sta nel cambiare, in non imprigionare all’interno di una formula decisa e rigida il proprio lavoro.
Gino è cangiante e liquido, come l’acqua dei canali di Venezia che non è mai uguale pur essendo la medesima. Si riflette, gioca con chi guarda, veste con tessuto, sceglie figurazione e modalità iconiche a breve distanza; poi a combinare gli opposti ci sarà l’occhio di chi guarda, con ironia o con distacco. La libertà non è in vendita e non va sacrificata sull’altare della coerenza. La vita, infatti, non è semplicemente quel che rimane dopo aver chiuso la porta dello studio.


Ignoro quali saranno le prossime direzioni di sviluppo della ricerca di Gino. Non so dove lo porteranno gli aeroporti, i lavori con i tessuti a maglia, i rottami, ma forse non ha nemmeno troppo senso chiederselo. È il suo desiderio, la sapienza delle mani, il gioco combinatorio, il voler essere diverso, a guidarlo. Il tutto condito da una certa amabile placida bastiancontraritudine che continuerà a spiazzarci e a farci sapere che essere artista è forse meglio di fare l’artista, che le esperienze personali contano sempre di più della lista delle mostre che sono in curriculum. E anche che la vita, in fin dei conti, non è semplicemente quel che rimane dopo aver chiuso la porta dello studio.