Luca Casonato
A latere

Conegliano, Leonart Gallery
dicembre 2011 ― gennaio 2012

Guardare sotto il pavé
Daniele Capra




Scattare una foto di un paesaggio equivale a fornire un elemento di una ipotetica mappa in grado di descriverlo e, in qualche modo, di riassumerlo. In particolare nel momento in cui gli scatti sono un vero e proprio reportage (sono cioè numericamente rilevanti e sono legati da un fil rouge), realizzare delle foto vuol dire costruire una mappa dalla quale si sono eliminati, dall’insieme più grande, gli elementi che sono non significativi: sono stati cioè rimossi quegli aspetti che – rispetto al nostro criterio – portano informazioni ridondanti, non necessarie e che ostacolano la comprensione. Il pregio principale dell’analisi è infatti nella rimozione degli aspetti trascurabili che intralciano il nostro punto di vista, dato che, fissata una scala, all’aumentare delle informazioni corrisponde un’inferiore capacità della mappa di rappresentare. Quindi, paradossalmente, la mappa che contiene tutto è inutile ed inservibile, poiché avrà le medesime dimensioni di ciò che rappresenta, come racconta magistralmente Borges in una delle sue pagine più celebri, in cui è narrata la vicenda di alcuni cartografi che arrivano – per eccesso di zelo – a realizzare una mappa dalle dimensioni pari al territorio originale [1].

Per realizzare una mappa è necessario quindi prevedere a grandi linee la numerosità degli elementi che andremo a ricercare, e, inoltre, elaborare un criterio metodologico grazie a cui sia possibile tracciare quei segni che mettono in relazione (bi)univoca lo spazio reale e quello rappresentato. Una delle modalità più rigorose (cioè con la stessa funzione della «fermezza» di cui parla Cartesio nel Discorso sul Metodo, quando suggerisce una modalità per uscire certamente da un bosco) è quella di seguire un profilo, un contorno: tutti i punti che giacciono su quella linea sono di evidente omogeneità topologica per il fatto di giacere sul limite, cioè sul confine tra due zone. La scelta di un approccio cartografico e di un campionamento territoriale in itinere, e in sono gli elementi fondanti di una fotografia di paesaggio che vuole procedere per sintesi, cioè per riassunto puntuale di ogni singola parte o porzione, e non per simboli, cioè in forma frammentaria isolando alcuni elementi di discontinuità o di interesse casualmente rilevati nel percorso. Se così l’ultimo approccio è nasce per prelievi campione, il primo è invece una procedura per condensazione, essendo ciascuna foto una rappresentazione di un determinato intorno scelto in base alla scala adottata.

È stato questo il modus operandi scelto da Luca Casonato per Costa Natura, il progetto che documenta il lungomare compreso tra Venezia e Caorle, realizzato la scorsa estate. Casonato ha percorso a piedi, riprendendo metodicamente i luoghi con i medesimi criteri espositivi. Le quattro giornate di riprese (scandite ciascuna dalla presenza di un fiume) sono state infatti strutturate in base ad un insieme di semplici regole, in modo di scandire modalità e tempistiche di lavoro «in forma simile a una liturgia» [2], che prevede l’andamento verso levante, la ripresa del cammino dal punto lasciato la sera precedente, l’uso di un’inquadratura con la linea dell’orizzonte circa a sempre a metà del fotogramma (in maniera che cioè che mezza parte dell’immagine sia occupata dal cielo).

Con questa processualità Casonato ha realizzato un reportage caratterizzato da un’analisi topologica attenta e non viziata dalla ricerca del particolare o dalla volontà di raccontare: non si è riposto attenzione a situazioni pittoresche o a micro o macro-narrazioni, poiché il criterio è stato semplicemente quello di documentare, di essere testimonianza, accettando di praticare una visione consapevolmente laterale piuttosto che una roboante approccio frontale. E benché, come ci ammonisce Susan Sontag, «una fotografia non sia solamente l’esito di un incontro tra un evento ed un fotografo», ma un evento «in sé» [3], Casonato ha ridotto ai minimi termini la portata dello scatto come evento che implica una performance, non tanto facendo appello alla pretesa e mai verificata oggettività della fotografia, ma scegliendo di muoversi in un intervallo espressivo ristretto.

Si susseguono così immagini di persone sulla spiaggia, luoghi sabbiosi, ritagli di edifici, senza che vi siano soggetti predominanti o elementi che spiccano, se si eccettua la presenza del cielo e delle nuvole, che, più di ogni altro elemento, scandiscono una dimensione temporale. Costa Natura finisce così per essere, per la sua forte icasticità, una testimonianza asciutta e pregnante di quello spazio fortemente antropizzato che le persone comuni conoscono solo per quei punti di accumulo (visivo, commerciale, relazionale ed economico) che sono i luoghi turistici, le spiagge addomesticate da lettini ed ombrelloni. Tra le città, sembra invece dirci calviniamente Casonato, c’è uno spazio inaspettato di mondo.

Ma un tramonto, un ritaglio inimmaginabile di paesaggio, è nascosto anche negli scarti di pellicola che finiscono nel bidone della spazzatura. Trashscapes è infatti un progetto sui pezzi di film impressi di luce ma che normalmente non sono sviluppati – come ad esempio le code dei rullini – perché ritagli di scarto. Casonato ha processato quei film e li ha fotografati, ottenendo immagini aniconiche e dai colori sfumati che ricordano dei veri e propri paesaggi, sui quali è possibile riconoscere terra, cielo, nuvole e tramonti. Il nome del progetto mette insieme trash e landscape, ma non si tratta di una semplice fusione linguistica, una contrazione per crasi [4], quanto piuttosto di una derivazione, di una figliazione diretta.

La pellicola infatti rivela qualcosa oltre le nostre aspettative, oltre le immagini custodite che sono il frutto del prelievo volontario di realtà da parte di chi fotografa. Se sin dagli albori della fotografia teorici e praticanti si sono assiduamente interrogati sull’immagine custodita dentro il film, chimicamente non stabile e ancora prodromo di qualsiasi cosa, Casonato ha scelto invece di occuparsi di un aspetto a latere, generalmente considerato non significativo perché marginale, casuale: sono gli spettri latenti ed involontari che nascono dal processo tecnologico, non previsti benché inevitabilmente connotate alla pratica della fotografia. In particolare il rifiuto produce immagini, che non sono tanto in sé “immagini del rifiuto”, quanto “immagini della periferia del processo”. Immagini che, giova ricordare, sono esito involontario che non è mai stato rappresentazione o interpretazione di un soggetto, ma il figlio bastardo sfuggito al controllo di amanti occasionali.

Mai come in questo caso quindi, in piena dinamica di eterogenesi dei fini, il fatto che l’esito (lo scarto) assomigli in maniera impressionante a qualcosa che riconosciamo come soggetto (il paesaggio) dimostra la centralità del processo di creazione delle immagini e della tecnologia che le supporta (nella pratica digitale ad esempio non ci sarebbero stati scarti di questo tipo). Ma questo attesta anche come la periferia della pellicola – e della visione – sia un lembo fertile in cui avvengono inconsci spostamenti, rivelazioni dagli esiti intellettualmente e visivamente seducenti. Se, come ricordava un fortunato ed immaginifico slogan del ’68 francese, sotto il pavé c’è la spiaggia, nello scarto di pellicole ci sono invece tutti tramonti che non abbiamo ancora visto.




[1] «In quell’Impero, l’Arte della Cartografia raggiunse una tale Perfezione che la Mappa di una sola Provincia occupava tutta una Città, e la Mappa dell’Impero, tutta una Provincia. Col tempo, codeste Mappe Smisurate non soddisfecero e i Collegi dei Cartografi eressero una Mappa dell’Impero che uguagliava in grandezza l’Impero e coincideva puntualmente con esso», J. L. Borges, Del rigore nella scienza, in Tutte le opere, vol. I, a cura di D. Porzio, i Meridiani, Milano, Mondadori, 2005, pp. 1252-1253.
[2] Secondo quanto descritto dall’autore nella presentazione del progetto.
[3] S. Sontag, On Photography, 1977, Penguin, Londra, p. 8.
[4] La crasi è quel fenomeno fonetico per cui la fine di una parola si fonde con l’inizio di un’altra formando un unico termine.