Giancarlo Dell’Antonia
Quello che resta

Cappella Maggiore, Galleria Civica
settembre ― ottobre 2011

Pensiero lento e azione veloce
Daniele Capra




La centralità della tecnologia negli accadimenti della storia, o in quello che potremmo chiamare “progresso umano”, comincia ad essere avvertita con una certa insistenza solo agli inizi del Seicento. Lo studio degli astri, della fisica, del corpo umano e, nel suo complesso, la nascita della scienza, cominciano a rendere evidenti l’importanza della tecnologia nella vita degli uomini. “La stampa, la polvere da sparo e la bussola: queste tre cose hanno cambiato completamente la faccia e lo stato delle cose in tutto il mondo. La prima in letteratura, la seconda nella guerra e la terza nella navigazione. Queste tre cose hanno causato cambiamenti epocali. Nessun impero, nessun gruppo di potere o nessuna stella sembrano avere mai esercitato così tanto potere ed influenza nelle vicende umane che queste tre scoperte meccaniche” [1] scriveva Francis Bacon nel Novum Organum, avvertendo tra i primi come il sapere stesse diventando centrale nell’evoluzione della storia e come fosse indissolubilmente legato agli aspetti del potere. Questo, in certi aspetti, anticipa la teorizzazione tardonovecentesca che vede la nostra come epoca dell’”economia della conoscenza”, ove per conoscenza si intende il patrimonio tecnologico, scientifico ed intellettuale posseduto (ovviamente da paesi dal capitalismo avanzato).

Se nel Seicento e nel Settecento si mette in moto quel processo a seguire in cui diventano centrali le scoperte scientifiche, è solo nella rivoluzione industriale che una grande quantità di persone entrano in contatto con la tecnologia, ed ovviamente il rapporto è traumatico. Poiché la tecnologia è indissolubilmente legata ad elementi di produzione, la macchina, il monstrum, è percepito come oggetto che ruba il lavoro (causando disoccupazione) oppure è esso stesso causa dello sfruttamento del capitalista nei confronti del lavoratore, elementi contro cui si sono opposti – con esiti ed intensità del tutto differenti – il movimento luddista e quello comunista teorizzato da Carl Marx. Se per i seguaci del luddismo la macchina andava infatti distrutta, per Marx andava condivisa, resa di tutti, collettivizzata, sottraendola cioè al monopolio di un’unica persona o di un ristretto gruppo (con una logica che ritroviamo, ai nostri giorni, in molti dei gruppi di esperti informatici che realizzano software open source).

Se tecnologia fa inevitabilmente rima con macchina/produzione, è in realtà con la nascita della fotografia che essa diventa al servizio di un medium espressivo, senza che, ovviamente, questo sia avvertito come un vero e proprio elemento di forza. È qui fuori luogo descrivere o riassumere le peripezie, anche teoriche, della nascita del nuovo mezzo, ma nei fatti è con lo svilupparsi della chimica che i primi sperimentatori registrano il mondo grazie ad una lente ed un supporto sensibile alla luce. In quegli anni, inconsapevolmente, andava a nascere quel sodalizio tra tecnologia ed artista (ma anche con l’uomo comune) che non smetterà mai di essere interrotto per tutto il Novecento, fino ad essere centrale nei nostri giorni. È così capitato che la fotografia, che a lungo si è nutrita di modalità e stilemi della pittura, sia essa stessa ai nostri giorni elemento imprescindibile per fare pittura; oppure che la videoanimazione ricorresse a strumenti elettronici per produrre effetti che fossero omologhi a quelli del disegno manuale. Nel suo complesso, seppure in modo talvolta conflittuale o non apertamente dichiarato, il rapporto tra universo espressivo e tecnologia si è ibridato e confuso, e davvero risulta difficile cogliere le differenze e le sfumature, sia nelle dinamiche che a prima vista sembrano riconducibile agli aspetti manuali che in quelle in cui la presenza della tecnologia pare preponderante.

Il primo impiego massiccio di tecnologia nel lavoro artistico di Giancarlo Dell’Antonia ha iniziato negli anni Novanta, quando i computer sono entrati massivamente nei nostri uffici. La sua è stata una scelta naturale derivata dalla pratica del digitale e della grafica computerizzata, ma nasconde in realtà un amore smisurato per la velocità che i processi tecnologici comportano e per l’estrema possibilità concessa di manipolazione istantanea. Tutto il percorso dell’artista è infatti all’insegna delle polarità pensiero lento e azione veloce, che si alternano in forma libera, ea avvengono talvolta contemporaneamente. In particolare il processo creativo tende a procedere, nel suo caso, per successivi scatti in avanti e ripensamenti, o pentimenti; l’opera si sviluppa così in una modalità non organica e lineare, con una velocità altalenante che ricorda l’andamento delle montagne russe. È fondamentale capire quanto l’aspetto tecnologico, contrariamente a quanto si possa immaginare, più che nei contenuti o nei rapporti uomo-tecnologia, agisca sulle tempistiche esecutive: l’artista infatti è, nello stesso tempo, un ciclista che gira per la città quando pensa ed un pilota di aereo quando esegue, come se non fossero possibili velocità intermedie.

Si vedono tutti i segni di questa dinamica polarizzata, soprattutto nelle opere che raccontano l’evoluzione – o, meglio, l’involuzione – della città contemporanea a partire dalle minime dinamiche percettive di un pedone. Mentre cammino si spostano i luoghi è infatti una serie di lavori, iniziata qualche anno fa e mai chiusa, che racconta le riflessioni filosofiche di un uomo cui il paesaggio sembra sfuggire a tal punto che la città si dimostra irriconoscibile (in realtà, più che una vera e propria serie, si tratta di un contenitore di osservazioni, una sorta di taccuino concettuale che raccoglie continui pensieri). Non sono ovviamente riflessioni sotto forma di testo ma vere e proprie visioni di ritagli impazziti che sfuggono alla retina, che sembra smarrita posta di fronte ai costanti cambiamenti. All’analisi sulle dinamiche urbane si contrappone infatti un disegno veloce, asciutto, sintetico e geometrico, che non cede alla piacevolezza ma rende ancora più acidi i contrasti, anche dal punto di vista cromatico.

Le opere realizzate accostando retini grafici di differente tipo, talvolta mischiandoli con carte geografiche di luoghi noti, o le fotografie su cui Dell’Antonia è intervenuto disegnandovi sopra delle linee di forza o di fuga, spezzate e rigorosamente non ortogonali, spiegano invece come per l’autore sia possibile evidenziare dei percorsi estranei – da flâneur visivo – che intercettino dei sentieri di attenzione o degli accumuli complessi su cui vale la pena posare gli occhi e concentrarsi a guardare. Sono queste, infatti, opere che agiscono nell’osservatore invitandolo a rallentare lo sguardo, convincendolo a sottrarsi alla pressione dromologica cui siamo tutti involontariamente costretti. Fermati qui e respira, sembra dire implicitamente. Se la città corre, se i posti si muovono, l’artista ci invita invece a stare fermi, a muoversi con lentezza e circospezione cercando di andare oltre i disorganici e disorganizzati processi urbani che la assediano. In questa funzione, liberato dalle ansie di rapidità esecutiva proprie della costruzione dell’opera, il mezzo tecnologico impiegato da Dell’Antonia agisce come rivelatore di lentezza, cioè come quel componente chimico che permette alla carta fotografica di mostrare ai nostri occhi l’immagine con la quale è stata impressa. In questo caso, però, ad essere mostrata, è la necessità di stare immobili. In forma paradossale, quindi, l’artista usa la tecnologia facendola apparire quasi inutile, un po’ come amava dire Nam June Paik [2].

Se in ultima istanza il dispositivo tecnologico si è trasformato in uno strumento di lavoro (esattamente come qualsiasi altro) in grado di garantire un risultato caratterizzato dalla lentezza, Dell’Antonia si è concentrato negli ultimi anni a ripulire ogni forma di artificialità che esso pone in essere. Sia grazie alle capacità di controllo della composizione, che per una sua forma personale di neoumanesimo urbano, le sue opere hanno sempre più spesso posto il problema del rapporto uomo-paesaggio come una questione di pensiero e di naturalezza, ove per naturalezza si intende un sistema che prenda in considerazione la complessità delle soluzioni degli uomini che vi abitano, e non tanto l’idealizzata forma bucolica ed incontaminata che ormai non ci appartiene. Per Dell’Antonia è necessario quindi ripensare la contemporaneità, non in forma utopistica ma cercando euritmie, simmetrie, ordine geometrico. Dalle mappe che rappresentano una città con la visione aerea, dalle strade e le vie di comunicazione che si intrecciano è necessario cercare un ordine nuovo, un sistema che prenda cioè in considerazione che la dimensione del vivere, anche negli aspetti di ordine percettivo e geometrico, non si può abbandonare al caso: vale la pena avere delle micro-utopie, che siano in grado di traghettarci dal vuoto attuale ad una forma collettiva responsabile, anche dal punto di vista estetico. Ecco quindi, nel video Cityflower, che le piante delle città si animano come dei fiori, sbocciando ed aprendosi ad inedite corrispondenze; ma, soprattutto, vi è un ritmo, una composizione, un benessere che sta nell’essere consapevoli che la città è pensata.

Disconnected Landascape è una serie di tavole di legno che propongono porzioni staccate di un tracciato urbano (il titolo dell’opera allude all’assenza di un ordine chiaro e comprensibile tra i blocchi degli edifici), per i quali l’artista ha recuperato la pratica della pittura, una modalità raramente frequentata da Dell’Antonia negli ultimi anni. Se sembra superfluo dire che i tempi e le modalità pittoriche sono all’antitesi di un lavoro tecnologico, tali risultati nascono dall’elaborazione di mappe digitali che sono state manipolate semplificando e adattando i tracciati. Aspetto tecnologico e manuale coesistono cioè in forma complementare: l’arancione ricopre il legno, ma è un colore a tutti gli effetti industriale. Natura e tecnologia sono, in questo caso, termini fintamente in opposizione. Agli artisti (ma anche agli uomini comuni, come ricordava Joseph Beuys [3]) spetta il compito di prendere parte a quella grande scultura e architettura sociale che è la città. Partecipare ad un atto creativo, immaginare una forma per i nostri spazi, è un gesto creativo e democratico. Pensare e re-immaginare l’estetica dei nostri luoghi, come fa Dell’Antonia, è invece un’irrinunciabile forma di partecipazione politica.




[1] F. Bacon, Novum Organum, libro I, CXXIX, ed. Laterza, 1992.
[2] “I make technology look ridicolous”, N. J. Paik, in Florence de Meredieu, Digital and Video Art, Chambers Harrap Publishers, Edinburgh, 2005, p.132.
[3] “This most modern art discipline–Social Scultpure/Social Architecture–will only reach fruition when every living person becomes a creator, a sculptor, or architect of the social organism. […] Only then would democracy be fully realized”, J. Beuys, I am searching for field character, 1973, in Carin Kuoni: Energy Plan for the Western man – Joseph Beuys in America, Four Walls Eight Windows, New York, 1993, p. 21.