Emanuele Kabu
Disharmony

Napoli, Lithium Project
giugno 2011

La realtà che bussa la porta
Daniele Capra




In Autodafé il protagonista Peter Kien incontra il mondo solo dopo una vita trascorsa circondato tra i libri, in un dorato autoesilio fatto di letture e di passioni intellettuali. Kien passa grazie ad un fortunato incontro dal sogno del mondo alla vita vera. Un universo, quello della realtà, lo assale all’improvviso di impeto spiazzandolo, riducendolo in una condizione di incertezza che lo porterà a toccare il baratro, senza alcuna possibilità di redimersi o di cambiare direzione. La realtà infatti, come fa dire Sartre ad uno dei personaggi di Le mani sporche, «deforma, rovina e rende sgradevole la più tranquilla delle esistenze». Chiunque voglia prendere parte al gioco terribile della vita – ammette il filosofo francese – finisce per rimanerne sedotto, per inzaccherarsi nel sudiciume del mondo. Ma agire, cambiare, sporcarsi le mani, è l’unica via d’uscita consentita e praticabile all’uomo, se vuole superare lo status quo che lo attanaglia alla propria condizione di totale passività.

Tale cambio di prospettiva – forte, totale, per certi aspetti tormentoso – è evidentemente il punto di partenza emotivo del video Disharmony di Emanuele Kabu, autore che, dopo una serie di video d’animazione dalle atmosfere naif ludiche e sognanti, ha voluto voltar pagina per prendere altre direzioni. L’opera infatti, che rifugge la piacevolezza dell’immagine tout court, ha una forte tenore di aggressività, di lucida ma rabbiosa presa di posizione sulla situazione ripetitiva e vuota della nostra realtà: è in qualche modo un lavoro esistenzialista – nel senso etico – di rifiuto del mondo. Esprime la volontà di superamento dell’insulsa asprezza del vivere inconcludente, delle dinamiche relazionali e sociali di consensuale reciproco sfruttamento. In buona sostanza Disharmony è un’opera filosoficamente critica (non certo socialmente o politicamente), che eredità la volontà corrosiva di video come Murmur o Heads fall Silently, ma fa uno scarto in avanti sulla constatazione dello stato del mondo, che diventa ora, in ultima istanza, un covo di veleni e trappole su cui, senza nemmeno accorgersene, gli uomini si adagiano.

Il video, che ha molte delle tecniche ricorrenti e dei topoi iconografici dell’artista (l’uso del disegno e della linea, la divisione dello schermo in più porzioni, la ripetizione delle sequenze, l’impiego di girato ed animazione, la presenza di elementi naturali in contrapposizione ad ambienti artificiali, gli uomini con la testa deformata) è caratterizzato da uno story board antinarrativo, in cui l’associazione tra le immagini è libera, quasi surrealista, e così fortemente inacidita da sembrare artificiosa. Non è infatti la piacevolezza che Kabu persegue, il fatto cioè di fare immagini accattivanti, facilmente digeribili ed assimilabili come la melassa insulsa che passa la televisione o il brodo di Youtube: l’artista infatti, più che accarezzare lo spettatore, vuole infastidirlo, prenderlo a schiaffi. Dargli cioè la sveglia, avvisarlo che non è possibile ancora restare nel torpore visivo, protetto sotto una cortina di coperte mentre all’aperto il mondo versa preda del ghiaccio. Disharmony è infatti una polpetta avvelenata che l’artista serve per far venire ai commensali ben più di un mal di pancia, cosa di cui ci si accorgeranno solo a fine pasto.

Liberata dall’ansia di dover essere gradevole a tutti i costi, l’opera risulta così una forma libera di indagine sul caos visivo (etico forse?), in cui il fil rouge è una linea colorata, principalmente rossa o gialla, che passa lo schermo da sinistra verso destra, talvolta biforcandosi, tal altra semplicemente cambiando direzione. Tale presenza segna tutto il video, ne è cioè il cuore ansimante, il dispositivo unitario che permette agli altri organi di funzionare. Il rumore di fondo è quello classico del noise, che modifica la propria tonalità in corrispondenza ad un cambio di immagine. La mescolanza tra immagini girate e parti di animazione rafforza l’idea di complessità e di artificiosità, svelando come spesso – rispetto alla “finzione” costruita del disegno – sia frequentemente la realtà ad essere sgradevole, deformante, da evitare più di ogni altra cosa.

Kabu stesso si è filmato e messo nell’opera (non è la prima volta), assieme a tutto il marasma del mondo che assale. Tranquillamente sorseggia qualcosa, forse una spremuta, forse un alcolico di forte gradazione, per dimenticare l’invadenza del mondo. Ma mai come ora, per lui come per noi che guardiamo stupiti, la realtà bussa prepotentemente alle porte.