Limite alla rovescia

Giancarlo Dell’Antonia, Ulrich Egger, Igor Eškinja, Chris Gilmour, Sergio Scabar, Serse

Vittorio Veneto, Palazzo Minucci
settembre ― ottobre 2009

Limite alla rovescia
Daniele Capra




Hanno avuto ragione i Futuristi. È la velocità che ha più di tutto caratterizzato l’epoca moderna, in una accelerazione inimmaginabile prima dell’avvento della tecnologie, della società dell’informazione [1]: rapidità di comunicazione, di spostamento, di visione, di compressione del tempo. In maniera ancora più spinta l’avvento della rete internet ha consentito un riversamento quasi infinito di informazioni ed immagini nell’agorà in cui viviamo, causando una progressiva sintesi dei contenuti di valore, cui è seguita una perdita di autorevolezza dei centri da cui tradizionalmente provengono le informazioni, trasformati più prosaicamente in nodi di una maglia enorme e diffusa. Curiosamente, nonostante un simile affollamento – se si eccettuano alcuni fatti esemplari caratterizzati da una non disinteressata lettura politica (si pensi per esempio all’epopea americana della lotta al terrorismo seguita sull’Undici Settembre) – sembra che le masse siano uscite dalla storia e che la vita si trascorra in una bolla sospesa e disorganicamente estranea al fluire del tempo. Il Novecento potrebbe infatti agilmente essere visto come il secolo in cui le masse entrano nella storia (la Rivoluzione Russa, le guerre mondiali) per fuoruscirvi con la fine della Guerra Fredda: in questi anni si concentra e si aggroviglia un secolo che è inevitabilmente breve.

La tendenza alla sintesi e alla velocità hanno determinato così una forte predominanza della vista sugli altri sensi e, parallelamente, si è assistito alla prevalenza della sintesi icastica sull’analisi argomentativa. Ormai, all’uomo di strada, il mondo pare srotolarsi ai propri occhi in una bulimica sequenza ininterrotta di immagini, continuamente in movimento come i mezzi sui quali esso stesso si sposta. Ed è proprio a questo approccio cinetico, o meglio locomotivo, che sembrano opporsi alcuni artisti, seppure con dinamiche del tutto eterogenee, chiedendo all’osservatore di fermarsi, di ri-vedere, ri-guardare, forse anche di ridere. Il gioco è chiaro: andare controcorrente per proporre una visione pacata, nell’otium. Passare del tempo investendo il minimo necessario per portare al limite opposto la visione, tanto nella percezione retinica quanto nella suggestione e nella comprensione concettuale: è cioè un limite alla rovescia.

La necessità di un’esperienza non affrettata e che avverte il bisogno di uno sguardo reiterato e non superficiale, indica la presenza, anche nel campo della ricerca d’arte contemporanea, di una contro-tendenza già registrata e codificata in altri settori della cultura (pensiamo ad esempio al cibo e al vino prodotti slow): solo guardando attentamente aspettando che le pupille scoprano i grigi nell’oscurità è infatti possibile leggere le fotografie di Sergio Scabar, e ugualmente i disegni a matita di Serse, che richiedono all’osservatore di perdersi nei dettagli e nella contemplazione degli elementi naturali realizzati con una tecnica prodigiosa. Ulrich Egger ed Igor Eškinja portano altrove il limite: rispettivamente nella finzione dei materiali che si confondono con la realtà, e nella rappresentazione fotografica che sceglie di essere programmaticamente antiprospettica e per questo spiazzante. Per Dell’Antonia il paesaggio urbano scompare invece nelle sue continue trasformazioni che lo rendono irriconoscibile, ormai nemmeno da fermi, mentre nelle opere di Chris Gilmour il limite è presto denunciato in una improbabile e straniante copia del reale nella versione poverissima ed antiretorica del cartone.

Tutti questi artisti hanno infatti sviluppato una dinamica concettuale di superamento della visione, che si manifesta nella forma di conoscenza soggettiva del mondo attraverso il manufatto oggettivo (l’opera): la pratica artistica diventa così una fondamentale protesi visiva, uno strumento di interrogazione ed esplorazione del reale dalle infinite possibilità negate alla visione quotidiana. L’opera risulta pertanto il baluardo estremo per la comprensione di un mondo che, nella sua stessa sostanza e nelle ambiguità interpretative, sempre più spesso gioca non solo a dadi, come già enunciava Eraclito, ma perfino a nascondino.




[1] Scrive infatti P. Virilio ne L’arte dell’accecamento (Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007, p. 84): “Lo si voglia o no, ciò che è oggi largamente contestato dalla dismisura del progresso cibernetico, e dall’accelerazione ipersonica, è l’insieme della rappresentazioni a solo benefici delle tecniche di comunicazioni istantanee”.