Jacopo Mazzonelli
In Affectionate Memory Of

Trento, Fondazione Galleria Civica
marzo ― maggio 2011

La musica come metodo
Daniele Capra




Un’opera d’arte, forma compiuta e chiusa nella sua perfezione di organismo perfettamente calibrato, è altresì aperta, possibilità di essere interpretata in mille modi diversi senza che la sua irriproducibile singolarità ne risulti alterata. Ogni fruizione è così una interpretazione ed una esecuzione, poiché in ogni fruizione l’opera rivive in una prospettiva originale. [1]


A quarant’anni di distanza dalla sua pubblicazione l’analisi, condotta da Umberto Eco in Opera aperta appare ancora centrale, poiché mette in luce uno degli aspetti più coinvolgenti dell’essere contemporaneamente spettatori ed interpreti: l’opera (risulta del tutto indifferente il fatto che sia musica, arte visiva o letteratura) è il risultato di una somma di stimoli da cui partono le nostre interpretazioni. O, se volessimo prendere in prestito alle teorie della matematica, potremmo dire che l’opera è l’insieme di partenza (il dominio) di tutti quegli elementi che trovano casa nello spettatore (il codominio). La funzione – la legge cioè che ci permette che ogni elemento del primo insieme abbia un corrispettivo nell’insieme di arrivo – è frutto principalmente del lavoro del linguaggio e del mezzo utilizzato. La funzione inversa – quella che ci permette cioè di tornare all’insieme originario, all’opera stessa – è invece il risultato della nostra interpretazione [2]. In questo movimento continuo che vede lo spettatore soggetto alla frizione tra essere contemporaneamente ricevente e mittente, avviene la dinamica che apre e libera l’opera, strappandola dalla prigionia dell’ermeneutica, dai tecnicismi e dalle disquisizioni troppo dotte (che troppo facilmente possono farci arenare nelle aporie del pensiero o nell’intellettualizzazione onanistica senza confini [3]).

Una delle differenze fondamentali tra opere aperte e quelle che non lo sono sta quindi nella possibilità o meno di creare un rapporto dialogico con chi la fruisce: più un’opera è aperta e più si presta ad essere, non tanto manipolata, quanto disponibile a raccogliere le impressioni, lo stupore, il disgusto o l’apprezzamento da parte di colui che la guarda. Il che ovviamente non indica che tutte le chiavi di lettura siano corrette o abbiano lo stesso valore, quanto il fatto che invece lo spettatore si senta parte attiva in grado di reggere una conversazione, anche se talvolta con un interlocutore straniante, imbarazzante o inaspettatamente di sostanza. In questo senso la pluralità dei livelli interpretativi gioca un ruolo fondamentale poiché permette a chi guarda di prendersi le libertà che gli si confanno, che egli stesso di persona è in grado di misurare.

È questa la chiave di lettura di molte delle opere di Jacopo Mazzonelli, artista che ha maturato una ricerca che indaga quell’ampia zona di confine tra arte visiva e musica. L’approccio non è quello della sound art nell’uso comune del termine – riferita cioè a «opere che producono suono con il proposito delle arti plastiche di non essere basate sul tempo» [4] – quanto piuttosto quello metodologico, per derivazione costruttiva e per influenza progettuale. L’aspetto sonoro udibile, che talvolta accompagna i suoi lavori, nasce infatti da un tessuto connettivo musicale, una sorta di humus germinale (l’artista ha alla base ferrei studi di pianoforte in conservatorio), ma raramente un’opera ha per soggetto il suono, anche nelle sue potenzialità plastiche o cinetiche: ciò che è importante è infatti porre lo spettatore in una condizione attiva in cui mettere in moto i sensi o esercitare un’aspettativa.

Prendiamo ad esempio Camera Inversa, un’installazione composta da uno specchio (la cui superficie riflettente ricorda vagamente i dischi d’acciaio di Alviani) che pare alternativamente concavo o convesso ed una sedia, sulla cui seduta si muove una molla che pare collocata lì casualmente. Se la visione dello specchio mette lo spettatore in una condizione esplorativa, alla ricerca di quello che c’è dietro, solo dopo si riesce a prestare attenzione al rumore discontinuo proveniente dalla sedia. Lo stupore è cioè preparato opportunamente con dei dispositivi che alimentano l’aspettativa, dinamica che accade frequentemente nella musica (o nel teatro): è una forma aggiornata della teoria degli affetti, la Affektenlehre elaborata dai teorici musicali tedeschi in età barocca che immaginava la musica come un insieme organizzato di suoni animati da intenzioni e stati d’animo [5]. Gli affetti – o, con un linguaggio più moderno, gli stati emotivi – sono prodotti secondo un’intenzionalità che lo spettatore, affidandosi all’artista, coglie solo in forma inconsapevole. Così Mazzonelli da un lato dà prova di conoscere il suo pubblico e dell’altro dimostra come prenderlo per mano, misurando gli effetti del proprio agire, come essenzialmente è portato a fare un musicista che si esibisce in pubblico.

Respiro (un foglio di carta collocato sul muro dal quale improvvisamente “cade” la propria immagine proiettata, come se un chiodo fosse saltato via) mette in discussione, in un gioco di rimandi, il concetto di bi e tridimensionalità, confrontando le potenzialità scultoree di una superficie piana, come un foglio di carta, con quelle generalmente assenti di una video proiezione. L’intersezione tra il medium carta ed il video diventa quindi sostanzialmente un’opera di confine, in cui coesistono l’oggetto e la sua rappresentazione proiettata, quanto meno sino al scivolamento di quest’ultima. L’evento della “caduta” (che in certi aspetti ricorda il pirandelliano strappo nel cielo di carta del teatrino di marionette [6]), opportunamente costruito facendo attendere l’osservatore, è così l’evento che scioglie la tensione dopo un climax costruito sull’assenza di azione. Proprio quel vuoto metafisico e il successivo accadimento hanno una perfetta trasposizione in campo musicale nel procedimento, tipicamente beethoveniano [7], di far seguire un pianissimo ad un lungo ed intenso crescendo. E alla stessa maniera l’installazione Organico (realizzata squartando un pianoforte e mettendo in mostra le potenzialità dinamiche dello strumento dopo esser percosso vigorosamente da un martello) ha, dopo il roboante inizio con l’elemento ansiogeno del rumore reiterato, un’evoluzione misurata che permette di ricomporre il groviglio di fili lanciati sullo spettatore inconsapevole.

I lavori come Mensa (costituito da un giradischi sul cui braccio è montata una forchetta che urta un bicchiere producendo un rumore simile a quello di un urto tra stoviglie durante i pasti) o Listening (costruito dall’unione di due stetoscopi) nascono invece dalla necessità di risemantizzare gli oggetti, di dare cioè una forma ed un impiego distante da quello originario, di farli cioè vivere di vita nuova. Mazzonelli realizza cioè una variazione o una improvvisazione sul tema dato, portando in luoghi differenti – con scopi differenti – dei campioni di realtà prelevati a piacere. In questo pare così dare voce alla necessità di avere sempre una possibile differente interpretazione, libera e distante dai parametri considerati standard e accettabili dal senso comune. Anche (I play) lonely every day può essere vista applicando delle metodologie musicali, in particolare nella stratificazione a più voci – la polifonia – in cui differenti layout si mettono in relazione trovando senso e giustificazione dall’intreccio della propria linea con altri elementi. L’installazione è realizzata con assi di parquet messe insieme in modo di fare un pavimento, che ha sotto a sé degli altoparlanti che fanno sentire alternativamente a destra e sinistra il nervoso rumore del rimbalzo di una pallina da tennis. Il pavimento è inframezzato da una finestra, fissata sul muro, che dà un po’ il senso della misura e un po’ funge da elemento anomalo che scompagina la vista. L’osservatore vede, ascolta, e involontariamente è spinto a muoversi lungo la linea tracciata dal parquet per percepire la spazialità del suono, ma anche per interfacciarsi con le stratificazioni cui è di fronte; e a quel punto, non gli rimane che identificarsi esistenzialmente – rifuggendo da complicazioni interpretative – con chi (l’artista), ogni giorno, gioca da solo. Lo stato emotivo, a volte, è semplicemente una questione di spostamenti.




[1] U. Eco, Opera Aperta, Bompiani, Milano, 1976, p. 34 [ed. originale 1962].
[2] Per necessità di semplificazione l’esempio non tiene conto che ciascun elemento del dominio debba avere una sola corrispondenza nell’insieme di destinazione.
[3] Tale tendenza, ma è un’opinione del tutto personale, accomuna molta della critica e degli addetti ai lavori, con il risultato che l’interpretazione assume talvolta un ruolo smisuratamente più importante dell’opera. Interessante l’interpretazione ironica della cosa che ne ha dato Rancière: «I am aware that of all this it might be said: words, yet more words, and nothing but words. I shall not take it as an insult. We have heard so many orators passing off their words as more than words […]; we see so many installations and spectacles transformed into religious mysteries that it is not necessarily scandalous to hear it said that words are merely words» (J. Rancière, The Emancipated Spectator, Verso, London, 2009, p. 22-23).
[4] A. Licht, Sound Art. Beyond Music, Between Categories, New York, Rizzoli International, 2007, p. 14.
[5] «The doctrine of the affections, also known as the doctrine of affects, or by the German term Affektenlehre (after the German Affekt; plural Affekten) was a theory in musical aesthetics popular in the Baroque era (1600-1750). It derived from ancient theories of rhetoric, and was widely accepted by late-Baroque theorists and composers. The essential idea is that just one unified and ‘rationalized’ Affekt should be aimed at by any single piece or movement of music, and that to attempt more was to risk confusion and disorder. According to the “doctrine of the affections” there are three pairs of opposing emotions that make six affects all together: love/hate, joy/sorrow, wonder/desire», Wikipedia, Doctrine of the affections, consultato nel marzo 2012.
[6] L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Baldini Castoldi Dalai Editori, Milano, 2009, p. 181 [cap. XII].
[7] Cfr. D. Huron, Crescendo/Diminuendo. Asymmetries in Beethoven’s Piano Sonatas, in Music Perception Journal, Vol. 7, Berkeley, University of California Press, 1990.