Matteo Negri
Splendida villa con giardino, viste incantevoli

Novate Milanese (I), Casa Testori
maggio ― settembre 2016

Muoversi per vedere
Daniele Capra




Mi sono spesso chiesto se la pratica artistica su tre dimensioni – spaziale? architettonica? ambientale? performativa? – differisca nelle finalità a quella bidimensionale, e più strettamente pittorica. Da quali ulteriori intenzioni, che non siano già presenti nella pittura, è motivata? Quali sono le ragioni che la sottendono che non è possibile trovare altrove? A risposte significative non sono ancora arrivato.
La pittura ormai non rappresenta più, non ha più nella natura il modello da copiare o cui ispirarsi, non vuole più dipendere da niente. Come ricordava Clement Greeberg, già a partire dagli anni Sessanta, essa serve ad autoalimentarsi, ma anche a mostrare i propri dispositivi, a smascherare il teatro. «L’arte realistica e naturalistica ha nascosto il medium, utilizzando l’arte per celare l’arte; il Modernismo impiega l’arte per richiamare l’attenzione all’arte stessa. Le limitazioni che costituiscono il medium della pittura – come la superficie piatta, la forma del supporto, le proprietà dei pigmenti – sono state trattate dagli antichi maestri come fattori negativi […]. Con il Modernismo tali limitazioni hanno cominciato ad essere elementi positivi» [1]. La pittura si fa con tutto – potremmo sintetizzare – a partire dalle sue stesse debolezze. Nonostante siano passati oltre cinquant’anni, in cui siamo transitati attraverso modernità e condizione postmoderna, tale riflessione appare tuttora ineludibilmente condivisibile.
Tale ragionamento risulta applicabile e vero anche per la scultura. Infatti, come la sorella pittura, le sue limitazioni sono anche elementi di pregio; ed inoltre non ci serve per fare una copia del mondo. Abbiamo altri mezzi, più sofisticati forse, per leggere ciò che ci circonda, e, se ne sentissimo l’esigenza, per rappresentarlo.
Torniamo quindi alla questione di partenza: perché le tre dimensioni? Una differenza rilevabile, forse, è che un manufatto che abbia un volume non si limiti ad occupare uno spazio ma lo attraversi, sia cioè in esso diffuso ed esteso, aspetto che implica la necessità di uno sguardo molteplice, poiché non direttamente percepibile con un unico punto di vista. Al contrario di quanto accade con un’immagine, che stimola ad una contemplazione stanziale (o al massimo lungo l’asse orizzontale per vedere da vicino e più lontano), la scultura induce ad una pluralità di viste, ricorda all’osservatore delle proprie gambe, lo invoglia a muoversi per conoscere, per poter capire in fondo e cogliere le differenze. È così un movimento avvolgente quello che lo spettatore è atteso a compiere, muovendosi attorno in maniera circolare, ma anche alzandosi o abbassandosi. La scultura, se volessimo dirla con una boutade, stimola il fruitore alla danza, lo fa ballerino. Il suo limite – la necessità di più di una vista – è così in realtà un’opportunità per chi guarda: lo mette nella condizione del viandante che interagisce camminando, curioso di avere un esperienza ulteriore, o anche solo di vedere di nascosto «l’effetto che fa».

Benché la coreutica sia da me culturalmente molto distante dalla mia rigidezza fisica, mi capita sempre di praticare una piccola danza sincopata quando entro nello studio di Matteo Negri. Non so se lui lo faccia a posta per farmi muovere (ipotesi plausibilissima, benedetta dagli ortopedici), ma è molto più probabile che sia in lui innato l’impulso a creare opere che stimolano l’osservatore ad adottare un approccio cinetico, che incoraggia a guardare e confrontare da più punti di vista. Questo è uno degli aspetti più personali ed interessanti della sua ricerca: lottare contro la staticità e la pigrizia dello spettatore.
Il progetto elaborato per Casa Testori, di grande impatto visivo, è mirato proprio a ribaltare le modalità di ricezione del luogo, il percorso implicito con cui lo spazio espositivo è fruito. Il visitatore, infatti, è costretto ad adottare un punto vista esterno all’edificio. Le opere ospitate nelle stanze della casa sono infatti visibili esclusivamente dall’esterno, spingendo il visitatore ad essere nel contempo osservatore e uomo in movimento, cioè spettatore e ballerino.
Il progetto Splendida villa con giardino, viste incantevoli, il cui titolo, che ha delle reminiscenze della gaddiana Cognizione del dolore [2], allude al lessico impiegato negli annunci di compravendita immobiliare, nasce dall’analisi delle funzionalità delle singole stanze di Casa Testori, connotate ciascuna da finalità abitativo di ordine differente. Negri sceglie invece di cambiare visivamente la loro destinazione d’uso, trasformando ciascun spazio in un luogo fisicamente inaccessibile alle persone, ma visibile dalle finestre del giardino. Non solo, quindi, i percorsi cambiano, ma il visitatore cessa di essere banalmente attore passivo di un percorso già stabilito per diventare invece persona esortata ad andare alla scoperta dei contenuti proposti. Il visitatore diventa così flâneur che interagisce con gli stimoli ambientali che gli si pongono innanzi: non più ricettore di contenuti, ma esso stesso scopritore.

Le opere di Splendida villa con giardino, viste incantevoli testimoniano la poliedrica abilità di Matteo Negri, e spaziano da installazioni di carattere ambientale, realizzate con specchi speciali, luci teatrali e piante, a sculture in cui vengono impiegati materiali compositi (come resine epossidiche, silicone), fino alle scritte luminose nel giardino. E poi il più classico bronzo, utilizzato per la grande scultura rotante che occupa lo spazio maggiore della dimora Testori – una Vespa Piaggio smembrata e ricostituita – che non viene imprigionata nel metallo, ma trasformata in un dispositivo che consente esso stesso di dare più punti di osservazione.
Continuo ad avere dubbi se la scultura abbia delle finalità differenti rispetto la pratica artistica bidimensionale. Ma, con certezza, possiamo dire che Negri faccia di tutto per dire che vedere voglia dire muoversi, danzare, avere un ritmo cinetico. Col mio piede, sto già battendo il tempo.




[1] C. Greenberg (ed. John OʼBrian), The Collected Essays and Criticism, The University of Chicago Press, Chicago, 1993, p. 123.
[2] C. E. Gadda, La cognizione del dolore, Garzanti, Milano, 1963. Mi riferisco alle parti descrittive dei primi capitoli in cui l’autore racconta l’urbanistica e le architetture di quei luoghi immaginari ed epici di un’America Latina di totale invenzione letteraria, che in realtà non sono altro che la provincia lombarda.