Ripensare le mostre. L’ombelico del curatore

saggio pubblicato su Espoarte
febbraio 2018
ISSN 2035-9772

Ripensare le mostre. L’ombelico del curatore
L’autoreferenzialità del sistema dell’arte e l’incapacità di pensare al visitatore come destinatario
Daniele Capra




Sono passati quasi dieci anni dalla prima volta in cui ho curato una mostra di arte contemporanea in uno spazio pubblico ed è andata progressivamente a rafforzarsi in me – come persona, come professionista, come uomo di sinistra – la necessità di costruire delle mostre quali dispositivi intelligibili e in grado di fornire al visitatore ulteriori strumenti per l’analisi o la critica della realtà. Una mostra è, nelle mie personali intenzioni (ma sono in ottima compagnia), non differente da un romanzo o da un saggio: racconta una storia, analizza dei personaggi, cerca di sviluppare delle ipotesi e, se possibile, propone anche una sintesi. Il romanzo ed il saggio sono ovviamente generi letterari diversi, partono da presupposti non simili, hanno destinatari differenti e, almeno si suppone, non richiedono al lettore la medesima disposizione mentale. Ma i due generi hanno in comune il fatto di richiedere la disponibilità di tempo per avere un’esperienza conoscitiva che avviene attraverso la parola scritta, mentre in una mostra i contenuti assumono principalmente forma visiva/spaziale e vi si accede camminando (benché nelle esposizioni frequentemente venga impiegata la parola scritta come strumento di mediazione).


Una mostra di arte contemporanea è quindi, per me e molti dei miei colleghi curatori, uno strumento per selezionare tra ciò che è stato prodotto (le opere, gli artisti, ecc.), per cercare di leggerlo, per tentare di avere un metodo con cui sottolineare o addensare quegli elementi della realtà che troppo velocemente sfuggono ai nostri occhi. Una mostra è il tentativo di opporsi alla liquidità del reale evidenziandone gli aspetti più significativi e che non vale la pena tralasciare. E non necessariamente le cose su cui non passare oltre sviluppano un contenuto artistico, ma sono significativi anche elementi di carattere sociale, antropologico, politico, storico. Ogni prospettiva di analisi è infatti valida, se l’artista possiede un linguaggio visivo in grado di sostenere le proprie indagini, di formalizzare il processo creativo.


Peccato però che troppo spesso tutto ciò rimanga esclusivamente nelle intenzioni di coloro che le esposizioni le curano, nelle discussioni degli addetti ai lavori, mentre l’importanza dell’analisi condotta da una mostra non venga percepita da chi a quel mondo è estraneo. Ma le mostre ospitate negli spazi pubblici non nascono infatti per essere degli strumenti culturali? Non hanno come destinatario il cittadino, colui che partecipa alla vita di un luogo e che a quel luogo frequentemente contribuisce con il proprio lavoro? Senza estremizzare possiamo tranquillamente dire che questo accade di raro, tanto più in un paese come il nostro dove la cultura è elitaria e in cui gli intellettuali schifano e si sentono lontani dal popolo, come già Gramsci ricordava cent’anni fa. Capita ahimè di osservare come, in buona sostanza, i frutti delle mostre, che sono prodotte con soldi pubblici, sono spesso raccolti solo dagli addetti ai lavori e servono a garantire un sistema di relazioni degli attori del mondo dell’arte contemporanea: permettono cioè ai singoli curatori di avere ruoli nodali, di fare carriere ed ambire ad incarichi più prestigiosi o meglio retribuiti. Il cittadino-visitatore non ha un ruolo e quindi la sua presenza è semplicemente accessoria; spesso, conta solo quando può essere un grande numero, in caso di operazioni popolari, ove per «popolari» si intende di «macelleria» o di «catering culturale» finalizzato a fare cassetta.


Le origini del problema non sono però da imputare solo alla categoria dei curatori: è molta parte, benché non tutta, del mondo della cultura ad avere perso i riferimenti del destinatario, come ad esempio dimostra anche lo stato del nostro cinema (non a caso settore fortemente finanziato dallo Stato). Ma in realtà è la classe intellettuale italiana a non avere più ricercato un pubblico, ad essersi coccolata nell’accademia guardandosi nell’ombelico, coltivando la propria bizzosa differenza rispetto alla massa. E la politica non ha fatto altro che acconsentire a questo progressivo svuotamento, in particolare a partire dai primi anni Novanta. Anzi, l’inconfessabile pensiero del politico medio di qualsiasi schieramento è che più ignoranti sono i cittadini, più facile sarà manipolarli.


Viaggio spesso e tante volte non da solo. Quando visito le mostre nei musei e negli spazi pubblici in altri paesi sovente mi capita di intuire, dalle parole dei miei compagni di viaggio, la sensazione di aver capito ciò che hanno visto, di aver colto le motivazioni per cui le mostre sono state organizzate, le opere sono state selezionate o allestite in quel modo. La mia impressione è che altrove si pensi allo spettatore non solo nel momento finale in cui si immaginano gli strumenti di mediazione con il visitatore (opuscoli, didascalie, brochure), ma in ogni fase del processo di una mostra, a partire proprio dal momento della sua ideazione, il che porta ad evitare onanismi intellettuali, cri(p)ticità, o vaniloqui egotici. È davvero così difficile, da noi, allargare il pubblico cominciando a rispettare chi ci dedica il proprio tempo? Non è il momento di svegliarsi e smettere di parlare di fronte allo specchio?