Selma Selman
I will buy my freedom when. Trieste Contemporanea Award

Trieste, Studio Tommaseo
giugno ― luglio 2018

TestoConversazione con l’artista
You have no idea
Note sulle performance di Selma(n)

Daniele Capra




L’opera di Selma Selman pone, di per se stessa, molte più domande delle risposte che apparentemente suggerisce, sia per l’ampiezza dei temi affrontati che per lo stile poliedrico ed aperto. Le questioni personali che nascono dalla sua provenienza geografica ed etnica (è Bosniaca di nascita, di famiglia rom), dall’essere donna in un mondo ancora fortemente controllato dalla componente maschile e, in misura ulteriore, le problematiche generali derivate dai pregiudizi sulle persone che provengono da contesti economicamente e culturalmente svantaggiati, sono centrali nella sua ricerca. Non si tratta però nel suo caso di un’analisi esclusivamente teorica, che deriva cioè dal prendere coscienza di una condizione complessa, ma di una situazione concreta e reale combattuta appassionatamente in prima persona, perché esperita e subita giorno dopo giorno come una ferita lacera sulla pelle che non smette di bruciare perché mai completamente in grado di rimarginarsi.


Benché la sua pratica artistica sia piuttosto articolata – spaziando dalla pittura al video, dal disegno ad opere di natura più concettuale – è la performance la disciplina che più di tutte risulta funzionale ad analizzare le forme con cui le differenze culturali agiscono sui comportamenti individuali/sociali, dei quali l’artista riesce ad evidenziare le intime contraddizioni e le inquietudini più nascoste. In questo senso You have no idea è esemplare: Selman, vestita con un abito da sera, ripete fino a perdere la voce la frase «You have no idea», con un tono sempre differente, in una sorta di dialogo che non riesce mai ad iniziare con lo spettatore. È un atto di ribellione intima alla lettura (su vari piani: sociale, antropologico, economico, etnico, emotivo o della salute) che uno sconosciuto quale uno spettatore generico può fare di lei o di qualunque altro individuo: Selman mostra violentemente di volersi sottrarre al pre-giudizio, a tutte le impressioni che si possono avere prima di conoscere, prima cioè di interagire direttamente con la persona e di condividere con lei tempo e parole. Ma non è semplicemente un riferimento alla sua condizione personale: in questa azione l’artista evidenzia come in realtà capiti sempre che alle persone e al loro comportamento venga applicato una interpretazione a priori, il che inevitabilmente rafforza preconcetti e stereotipi, i quali a loro volta rassicurano chi li ha e parimenti lo sottraggono dalla responsabilità di elaborare compiutamente un giudizio.


La necessità di protezione dagli altri, l’attenzione a non rientrare nelle aspettative delle (sovra)strutture sociali ed economiche mirate a controllare l’individuo – come la comunità, il capitalismo, la religione, i maschi, il pensiero tradizionalista – sono i temi anche di Superposition, il cui titolo fa riferimento al principio di sovrapposizione che in fisica stabilisce come, in un sistema dinamico lineare, l’effetto di una somma di perturbazioni sia uguale alla somma degli effetti prodotti da ciascuna perturbazione. Vestita con i guantoni da boxe l’artista combatte contro un nemico immaginario, che è insieme l’altro e se stessa, ma che non si materializza mai, quasi fosse un fantasma tenuto nascosto nella testa, nelle coscienza sua e degli spettatori. Con una scansione in riprese simile a quella del pugilato Selman danza e (si)colpisce, urlando continuamente «defend your body», come solitamente fanno gli allenatori di boxe. È una performance molto dura, in cui la carica cinetica del movimento, il rumore dei guantoni, il sudore del corpo che danza e colpisce, agitano emotivamente anche gli spettatori, che sono insieme astanti e, in modo inconsapevole, gli avversari che le hanno assestato i colpi da cui lei stessa ha dovuto proteggersi.


Le questioni della ricerca della propria identità, nei meandri inestricabili che costituiscono la storia personale di ciascun individuo, sono invece il punto di partenza di Self portrait, performance in cui l’artista distrugge con ad un’ascia degli elettrodomestici (essenzialmente aspirapolveri, lavatrici) riducendoli in minimi pezzi. Se da un lato la sua pare una ribellione luddista e femminista a quelli che sono stati tradizionalmente degli strumenti di lavoro femminile nelle case, dall’altro l’opera dichiara senza pudore come la vita della sua famiglia (che si occupa tradizionalmente di rottami) dipenda dal riciclo delle parti metalliche degli elettrodomestici, dall’impiego e dalla distruzione delle merci che sono anche strumenti di controllo e dominio degli uomini e del consumismo capitalista. La performance evidenzia quindi come la realtà sia così complessa da rendere le azioni degli uomini interdipendenti, ben oltre le possibilità di controllo di ciascun individuo. Nel nostro mondo, in forma inconsapevole, mai come ora l’assunto opportunista mors tua vita mea va declinato geograficamente ed antropologicamente a migliaia di chilometri di distanza.
Conversazione con Selma Selman
Daniele Capra



Dato la tua origine Rom suppongo che quasi tutte le conversazione che hai avuto nella tua storia professionale siano cominciate dalla questione della tua identità. Lasciamola da parte per il momento e concentriamoci invece sui tuoi esordi artistici. Hai iniziato a lavorare come una pittrice figurativa e successivamente hai cambiato verso la performance. Per quale motivo questo medium ti è più congeniale?


L’arte mi serve come via di fuga, ma non però per sfuggire dalla realtà concreta della mia identità. Sono una pittrice ma anche una performer ed una appassionata di tecnologie. Comunque ho cominciato in maniera decisa con la pittura e ho dipinto di tutto. È stato un periodo della mia vita meraviglioso seppur pieno di difficoltà. Soffrivo perché non riuscivo a provare piacere nel dipingere: c’era sempre qualcosa che mancava. Ricordo che nel 2014, quando mi sono diplomata in pittura all’Accademia di Banja Luka, il mio professore Veso Sovlj venne da me mentre stavo lavorando ad un autoritratto in forma di Gipsy Olympia e mi disse: “Selma, comincia a dipingere!”.


Si era reso conto che stavi allontanandoti dalla pittura. Che è poi una pratica basata su un forte vincolo nel giorno dopo giorno…


Il mio insegnante non era una che parlasse molto, ma proprio grazie ai sui silenzi e alle poche parole dava dei consigli in modo diretto, anche se diplomatico. Però non mi sono mossa dalla pratica della pittura inconsapevolmente: non volevo essere legata ad un solo mezzo espressivo per tutta la mia vita, ma piuttosto essere in grado di impiegare media differenti per idee differenti. A mio modo di vedere la performance è uno spazio personale in cui poter esplorare compiutamente le estreme profondità della sofferenza, della paura e dell’amore.


Sono un po’ sorpreso di questo. Ho visto tutta la documentazione video delle tue performance su internet e ho assistito di perso a Superposition a Trieste Contemporanea. Mi sono fato l’idea che l’obbiettivo delle tue performance sia la ribellione agli stereotipi e alle aspettative del pubblico attraverso una forma temporale rapida, mentre al contrario la pittura è molto più lenta. Ma la tua concezione della performance è basata principalmente sulle tue emozioni e le tue esperienze personali? O piuttosto sul linguaggio del corpo e sul tentativo di creare una relazione con il pubblico? Non pensi che la performance sia un medium caratterizzato da quello che accade al di fuori del corpo del performer, o quanto meno nello spazio tra lui e lo spettatore?


Io vedo la relazione tra l’idea, io stessa ed il pubblico in quattro aspetti. Il primo è il fatto che il mio progetto deve avere una logica che chiunque può mettere in atto. Il secondo punto è riferito a quando io sto performando: in quel momento non penso in alcun modo al pubblico, sono totalmente concentrata sull’idea e sull’azione che sto svolgendo, e su come essa inneschi un cambiamento o reazione nel mio corpo. Il terzo elemento è essere dentro il mio stesso corpo, concentrata nell’eseguire l’idea: è una forma di intimità pubblica, che va condivisa con gli spettatori, e il mio corpo è inevitabilmente influenzato dalle loro reazioni. L’ultimo fattore è il pubblico che, dopo un po’ di tempo, è in grado di percepire la logica attraverso la mia performance, poiché ciascuno può interpretare l’azione attraverso le proprie emozioni. Il pubblico che partecipa non è necessariamente il pubblico che assiste alla performance. Sto costruendo il mio lavoro con il pensiero di pubblico possibile. Il pubblico può essere in grado di impiegare la logica che trasmetto attraverso la performance in un contesto differente.


Non pensi che in questo modo il tuo processo sia troppo concentrato sul lato dello spettatore?


Dopo anni di sperimentazione ho capito che la performance non è esclusivamente l’esito di un approccio individuale all’arte: quello che faccio in forma personale è solo metà del lavoro. Le complesse interazioni tra me e lo spettatore, tra gli stessi spettatori e le energie ineffabili ed intense che si condividono durante l’azione sono elementi fondamentali per costruire una performance. E questo è il motivo per cui la comprensione della logica da parte del pubblico è per me importante, dato che questo potrebbe condizionare un comportamento in una situazione successiva. Di certo non tutti traggono un piacere dalla mia performance, e il pubblico può essere molto rigido o molto emotivo. Capita che la logica che veicolo mi spinga così a vedermi con un punto di vista nuovo, complesso: è da qui che le mie emozioni emergono, dal fatto di mettere in atto modi di pensare che mi spingono ad un cambiamento. Ogni volta in cui finisco una performance mi sento sollevata e sono sicura che il pubblico avverta lo stesso, o quanto meno coloro che si sono lasciati coinvolgere.


Quali sono le idee e i temi che affronti con la tua pratica artistica?


Sono messa alla prova quotidianamente dalla società in cui vivo ed esisto, non ho dei temi specifici da analizzare, poiché essi possono stare ovunque e dovunque. Per essere più precisi io uso l’arte per modellare e comunicare modi di pensare che possano potenzialmente indurre lo spettatore ad un cambiamento. L’arte è uno strumento che ha molte possibilità di essere d’aiuto all’umanità per creare e veicolare possibilità di crescita personale, felicità, nuove idee o semplicemente per dire le cose come stanno in realtà. Questo è poi il motivo il motivo per cui sono interessata a come i desideri e i sogni possano diventare realtà. Questo è per me un modo di comprensione di come gli uomini diano forma e trasferiscano una determinata logica in grado di realizzare nuove aspettative. Proprio con questo in testa sto lavorando ad un progetto per ricreare l’infanzia di mia madre impiegando le tecnologie della realtà virtuali per metterla nella condizione di sperimentare ciò che non ha avuto la possibilità di vivere.


Ma credi davvero che l’arte sia così potente da condizionare o cambiare le vite delle persone o a portarle ad essere coscienti di aspetti prima ignorati? Non mi riferisco al pubblico interessato all’arte o ai temi culturali in genere, che in qualche modo sono aperti ad un coinvolgimento, quanto invece ai fruitori occasionali, solitamente molto distanti dai linguaggi dell’arte contemporanea…


Sì, credo che l’arte sia sufficientemente potente da influire o indurre un cambiamento nella vita delle persone. In molte società, passate, presenti o future, gli esseri umani dipendono ed esistono grazie a strumenti cognitivi collettivi e al comportamento che è veicolato dalla cultura. L’arte è come come la forgia di un fabbro: è uno spazio dove si possono mettere a punto ulteriori modalità cognitive sperimentali da far circolare e impiegare a discrezione.


Parliamo invece ora delle tue origini familiari. Io credo che un artista sia un artista in tutti gli aspetti della sua vita, e penso che la sua provenienza possa essere considerata alla stregua di un materiale da impiegare nella realizzazione dell’opera, che può essere utilizzato o completamente ignorato. Pensi che la tua origine abbia influenzato gli aspetti fondamentali della tua ricerca, come ad esempio il tuo approccio, il linguaggio o gli argomenti che hai affrontato?


Penso a me come una sovrapposizione di strati. Il nocciolo sono io come artista, il secondo livello come essere umano, il terzo come Selma Selman, il quarto come rom, il quinto come Bosniaca e, alla fine, come parte di una realtà più ampia. Da artista considero i livelli semplicemente come una materia prima e uno strumento, o talvolta entrambi. A volte la mia identità rom è il soggetto su cui lavoro, in altre è uno strumento che impiego su temi sociali più ampi. In ogni caso rimango sempre un’artista, le materie prime e gli strumenti cambiano e si evolvono, includendo ulteriori strati di identità o di natura sociale. Ma non rimango che una semplice artista che si crea strumenti e materiali espressivi!


L’identità etnica è però determinata dalle variabili familiari trasmesse dai genitori. Ma anche se sei orgogliosa si essere rom, come artista non credi che dovresti opporti a questo aspetto? Mi riferisco in particolare alle tradizioni, ai ruoli degli uomini e delle donne…


A dire il vero non credo che l’identità etnica sia una condizione trasmessa dalla famiglia, quanto invece una questione di una fortuna geografica. Non penso poi sia fondamentale per le persone rivendicare il proprio orgoglio su base etnica, nazionale o patriottica. Questa tipologia di orgoglio identitario crea nazionalismo, il nazionalismo crea odio e l’odio crea guerra. Penso che le persone debbano essere massimamente orgogliose degli obbiettivi che raggiungono individualmente, socialmente e per il mondo. La mia funzione, come artista, è quella di usare/fare l’arte come uno strumento [di indagine] e di spingere verso un necessario cambiamento.


Qualche giorno fa abbiamo discusso del problema di essere donna nella nostra epoca di una società capitalistica postindustriale. Eravamo entrambi d’accordo sul fatto che il corpo delle donne è controllato dai maschi attraverso dinamiche di soft power, anche grazie all’uso delle nuove tecnologie. Come donna e come artista ti senti impegnata nei temi del femminismo?


Prima di tutto gli uomini sono coloro che proiettano le proprie aspettative sulle donne perché non sanno come controllare il proprio uccello! Io sono una femminista e non sono solamente interessata nel femminismo dal punto di vista intellettuale, ma sono impegnata a cambiare le ridicole aspettative che sono imposte alle donne e, ugualmente, a fornire degli strumenti che possano aiutare le donne ad abbattere le false aspettative che esse stesse si impongono. Il movimento femminista è cambiato negli anni e tutt’ora è in cambiamento, mai come ora quando il tema del genere è affrontato più dal punto di vista delle funzioni. Mi sento di condividere il pensiero di Donna Harraway secondo cui non c’è nulla nell’essere “donna” che sia in sé definito da un determinato insieme di qualità o significati fissi. Aspettative senza senso sono imposte e fatte rispettare alle donne attraverso condizionamenti esterni, che al giorno d’oggi perpetuano situazioni assurde. Nell’era della globalizzazione, dell’industrializzazione e della tecnologia, noi donne dobbiamo ancora combattere per avere il diritto di portare una gonna sopra il ginocchio…


Hai delle utopie da condividere con le altre persone?


Certamente! Utopia è una speranza ed un ideale che ci fa stare vivi nella realtà di tutti i giorni. Le persone ricche sono povere, a dire il vero, poiché la loro fame è maggiore di quella dei poveri. Sono più interessata all’utopia come una sfida alla realtà, ed io faccio arte dall’urgenza della realtà. Il mio slancio utopico è nel non arrendersi per dimostrare che niente è impossibile.