Michele Spanghero
Translucide

Trieste, Factory Art
maggio ― giugno 2009

WYSIWYG
Daniele Capra




Che tipo di interazioni vi sono tra tutto ciò che esiste e le immagini fotografiche che ne traiamo? Quale processo permette ad un’immagine di essere registrata e appartenere al nostro sistema visivo? Gilles Deleuze, nell’analizzare le posizioni di Bergson, suggeriva come le immagini fossero create non nel momento della nostra visione, ma che al contrario preesistessero all’atto stesso nelle cose. Per fissare la luce che gli oggetti stessi emanano, per renderli cioè intellegibili, il filosofo raccontava di come vi fosse la necessità di un supporto traslucido, in grado in qualche modo di trattenere questo flusso luminoso [1]. Sono i nostri occhi a fornire il necessario schermo retinale, oppure – artificialmente – possono sostituirli una pellicola fotosensibile o qualsiasi altro strumento che funzioni da display. Si potrebbe dire che il mondo si mostri per irradiazione vaporosa, e che una sorta di vetro opaco renda possibile che quelle sottili goccioline di luminosa umidità contenute esse stesse negli oggetti, si condensino su di esso diventando visibili.

Conseguenza di questa teorizzazione è che le immagini siano già create e contenute dentro le cose; e che nel contempo l’impiego del mezzo fotografico non permetta creazione ex novo, ma semplice trasposizione, che può essere svolta in maniera fedele e burocratica (come molte volte è desiderabile), oppure infedele e per questo distorcente. Ma in alcun modo nessuno crea nulla.
È partito da queste suggestioni Michele Spanghero, che ha svolto un particolarissimo progetto mirato ad eviscerare le dinamiche attraverso cui si formano le immagini digitalmente. L’autore ricostruisce infatti in un video il processo grazie a cui il flusso di dati numerici diventa intellegibile: nel momento iniziale la luce si imprime istantaneamente sul sensore; poi, successivamente, questa ombra si compone nella sua interezza, nella forma compiuta (e opportunamente alcuni dei frame più significativi del video sono stati congelati e stampati, a testimonianza di differenti livelli di avanzamento evolutivo). Egli ha dilatato in un tempo inaspettatamente lungo questo intervallo, in maniera tale che i pixel si manifestino con una smodata lentezza, a graduali incrementi di risoluzione. In questo modo mette in scena una sorta di rivelazione misterica dell’immagine, in cui la rappresentazione indugia in uno stato di indefinitezza, senza la necessità di rivelarsi subitaneamente nel suo potere iconico. I singoli fotogrammi sono così spettri, fragili ed inconsistenti frammenti che trattengono lo spettatore nell’attesa che l’apparizione avvenga. Nel momento in cui l’atto è completo, il processo ritorna lentamente allo stato primigenio, mostrandone i limiti e smascherandone le inutili ambizioni.

Nell’operare questa destrutturazione, Spanghero manifesta viva opposizione al processo di appropriazione delle immagini (che più di ogni altro caratterizza la nostra epoca), e contribuisce a togliere il potere che ogni atto di visione, anche inconscio e superficiale, possiede. In maniera schietta ed antiretorica l’autore si sottrae così a quella che definisce l’«ansia da prestazione da pixel» e svela l’inconsistenza di ogni gesto di registrazione elettronica, caldeggiando nel contempo la necessità di un approccio più ragionato, che elevi l’osservatore dalla condizione di bulimico ed iconofago voyeur. Tanto più perché, nell’essere spettatori, è opportuno sapere che non è la realtà ciò che vediamo, o un suo doppio ragionevolmente accettabile, bensì la sua mediata trascrizione traslucida.

Inevitabilmente, in queste condizioni, il mondo sembra dipanarsi nelle sintomatiche modalità WYSIWYG (What You See Is What You Get) comuni a tante interfacce elettroniche [2]. «Ciò che vedi è quello che otterrai», e tutto sembra facile ed immediato come una pubblicità degli anni Sessanta. Peccato però che nulla di questo, in ultima istanza, ci appartenga. Se non per successive, limitate, retiniche persistenze.




[1] «L’occhio è nelle cose, proprio nelle stesse immagini luminose. La fotografia, se fotografia vi è, è già presa, già scattata, all’interno stesso delle cose e per tutti i punti dello spazio. […] Sono le cose a essere luminose di per se stesse, senza nulla che le rischiari: ogni coscienza è qualche cosa, si confonde con la cosa, cioè con l’immagine di luce. Ma si tratta di una coscienza virtuale, diffusa dovunque e che non si rivela; si tratta davvero di una foto già presa e scattata in tutte le cose e per tutti i punti, ma traslucida». Gilles Deleuze, L’immagine-movimento, Ubu Libri, 1984, pag. 79.
[2] Nella più completa versione inglese, Wikipedia descrive WYSIWYG come «un sistema in cui il contenuto visualizzato durante l’utilizzo risulta molto vicino al risultato finale». È una caratteristica comune a molti degli apparecchi e programmi elettronici che normalmente utilizziamo (come fotocamere, word processor, ecc.).