Claudio Bettio Taiabati
Anni luce

saggio, Anni luce
settembre 2008

Tra committenza e Rapidità
Daniele Capra




Instead of ethics, I learned only to tell people what they want to hear. I learned to write everything down. And I learned editors can be real assholes. [1]


È crudo, conciso e tagliente il racconto della gavetta nella scuola di giornalismo del reporter protagonista del romanzo Ninna nanna di Palahniuk. Senza questioni etiche, morali, professionali, ai redattori come lui è chiesto di preparare la pietanza da dare in pasto ai quotidiani lettori. Ogni forma poetica potrebbe essere inutile perdita di tempo o sproloquio intellettuale. Il pasto mediatico va servito non molto cotto e deve essere digeribile in fretta.

Non c’è nessuna di questa brutalità etica nel progetto che Taiabati ha realizzato documentando i dieci anni di storia della società a cui egli stesso collabora, che si dipana in una carrellata di oltre centocinquanta ritratti che raccontano le persone che a questa avventura aziendale hanno preso parte. Però è indubbio che il peso del committente – che non significa necessariamente invadenza – e la rapidità di svolgimento hanno condizionato il suo lavoro in maniera non dissimile dalle dinamiche editoriali del giorno d’oggi, basate sulla rapidità e sulla facilità d’accesso. A lui è stato chiesto non tanto un reportage che indagasse nella variegata umanità che stava lavorando o avesse in passato lavorato per l’azienda, bensì una documentazione con un numero definito di soggetti, da svolgere in tempi strettissimi, nonostante le persone fossero dislocate negli angoli più disparati del Bel Paese, o talvolta avessero assunto nuovi incarichi in altre società. Inutile dire che le difficoltà di programmare e svolgere un siffatto lavoro si sono rivelate essenzialmente un’opportunità per indagare ed impadronirsi di un approccio alla fotografia assolutamente estraneo alla creatività dell’autore, che nel suo lavoro individuale persegue altre poetiche con metodi del tutto differenti. La limitatezza della libertà e la necessità a fare riferimento a dei codici documentativi obbligati (uso del bianco e nero, il ritratto verticale di viso o mezzo busto, lo schema di luci quasi fisso, ecc.) hanno così, paradossalmente, liberato il suo lavoro da ansie artistiche o contenutistiche, forzandolo ad un lavoro seriale che gli è generalmente non congeniale.

Nel 1979, Thomas Ruff, allora allievo a Düsseldorf dei coniugi Becher, inizia la prima serie di Porträts, in rigoroso bianco e nero, in cui sono ritratti molti dei compagni di accademia, amici e parenti. Lo studio del rigoroso approccio dei Becher lo influenza sin da subito nella processualità, mentre rapidamente abbandonerà il bianco e nero a favore del colore. Ma è in quel momento che fa suo quel metodo di lavoro che rapidamente lo porterà alla ribalta internazionale già sul finire degli anni Ottanta. In modo non dissimile Taiabati è stato indotto ad adottare un format già deciso, un codice formale in cui gli spazi di libertà vanno ricercati nel dialogo col soggetto, nella ricerca di una fotografia che sia denotativa piuttosto che connotativa. Il suo talento, quindi, emerge nei momenti in cui riesce ad oscurarsi per far parlare il soggetto, celando e facendo tacere l’ego individuale di chi sta dietro la fotocamera. Ecco così che gli scatti più riusciti sono quelli in cui la persona ritratta non ha difficoltà a mostrare il proprio imbarazzo o al contrario si illude di aver scelto la formula più congeniale con cui rappresentarsi: è in questo esibizionismo che il ritratto documenta la dinamicità del soggetto, anziché affondarlo nella rigidità schematica da fototessera. Grazie alla disponibilità alla recita del soggetto, che gioca ad essere protagonista, Taiabati documenta quindi la mimesi, la copia del reale che sembra proprio desiderabile al soggetto, interessato ad essere fotogenico ed evidentemente autorappresentativo. Se come scrive TJ Demos “il ritorno della pratica documentativa smentisce i verdetti emessi in passato sulla crisi del reale, secondo cui l’esperienza visiva è avvertita come soccombente rispetto allo spettacolo” [2], la scelta fotografica di Taiabati è intelligentemente ibrida, poiché non rinuncia allo spettacolo ma ne documenta le effettive tracce nella vita contemporanea, rivelando le potenziali conflittualità tra semplice registrazione elettronica e molto meno superficiale documentazione che si sforza di essere realist(ic)a.

Sono passati quindi mille anni dal 1929, in cui August Sander pubblicava la prima edizione del suo capolavoro Antlitz der Zeit, in cui membri – anche molto noti – della società tedesca avevano prestato il loro volto ad una stupefacente documentazione di un paese in bilico sull’orlo di un precipizio: ai giorni nostri, paradossalmente, non esiste spontaneità, poiché i soggetti sono sin dalla tenera età consci di cosa ci si aspetta da loro e sanno contabilizzare la forza della propria immagine posta di fronte le lenti di un obbiettivo. A questo punto non ha più nemmeno senso chiedersi il ruolo e lo spazio occupato della fotografia, essendo non solo del tutto contemporanea [3], ma avendo in più assunto il ruolo di protesi duplicativa e teatrale del nostro corpo, della nostra vita, dei nostri ricordi. Non è solo quindi una questione di mutato Zeitgeist, sono gli uomini ad essere cambiati. Taiabati ne è cosciente e rifiuta di compire l’atto creativo, non perché contenga “una minaccia reale per chi lo osa” o voglia esporsi “a subire le brutalità che la sua assenza ha reso possibili” [4], ma perché il soggetto recita quasi da solo. Ed il buon regista sa nascondersi e vivere [5], ora come non mai, tra le trame della commedia umana.




[1] “Anziché l’etica ho imparato a dire alle persone ciò che vogliono sentire. Ho imparato a segnarmi qualsiasi cosa. E ho imparato che i direttori possono essere dei veri stronzi”, Chuck Palahniuk, Lullaby, Vintage Edition, 2003.
[2] T. J. Demos, The Ends of Photography, in Vitamin Ph, Phaidon Press, 2006.
[3] Cfr. Roberta Valtorta, È contemporanea la fotografia?, Lupetti, 2004.
[4] Jean-Luc Godard, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, Minimum Fax, 2007.
[5] Curiosamente, in maniera non dissimile dal precetto epicureo del vivi nascosto.