Nicola Genovese / Mark Požlep
Tomorrow, maybe, I will still be the same

Venezia, A+A
aprile — maggio 2013

Paraventi per uomini comuni
Daniele Capra




Abbiamo la sensazione che il mondo e gli altri cambino in maniera continua e più veloce di quanto succeda a noi stessi. Sembrano di poco conto gli innumerevoli fatti che quotidianamente accadono e ci riguardano, o la complessa rete di relazioni che la nostra vita intreccia con persone, luoghi, oggetti. Il nostro io è qualcosa di diverso dalla somma di tutti gli accadimenti, uno in fila all’altro senza soluzione di continuità. O almeno amiamo rifugiarci in questa consolazione, nella speranza che la nostra vita sia unica, irripetibile – e meravigliosa – come si sente in una qualsiasi delle canzonette pop.

Eppure c’è dell’altro, effettivamente. C’è sempre qualcosa che non funziona e i conti non tornano mai del tutto secondo le nostre aspettative: per fortuna c’è sempre qualcosa che sfugge al libro mastro da contabili che ci portiamo dietro. Siamo bibliotecari pasticcioni, archivisti di terz’ordine i cui errori sistematici consentono fortunatamente di sfuggire la banalità di ciò che noi avremmo atteso. Inutile cercare teoremi: è la nostra imperizia che ci garantisce di non essere esattamente l’addizione di tutto quello che abbiamo alle spalle, ma anche qualcosa in più, sfuggito al nostro zelo.

Non c’è da stupirci allora se non sappiamo dire chi siamo, quali siano le nostre radici, e soprattutto dove stiamo andando. Non ci vengono in soccorso l’ineffabile liquidità dentro cui siamo immersi [1] o la sistemica assenza di ideologie foriere di utopie, nemmeno a buon mercato. Ciascun individuo sembra infatti vivere in un frangente di post-postmodernità (forse cronologicamente l’ultimo, anche se nessuno lo può affermare con certezza, per stessa natura dell’idea di postmodernità) caratterizzato da una polverizzazione del reale e da un continuo ed inconsapevole sincretismo che molto mette insieme, senza che si evidenzi l’uso di un criterio formale. Inoltre, non solo non ci bagniamo mai due volte nello stesso fiume dato che l’acqua non è mai la stessa [2], come ammoniva Eraclito, ma oggi nemmeno ci interessa fare il bagno nello stesso luogo poiché l’interesse è quello di bagnarsi e conoscere (o più prosaicamente pensare di conoscere) più fiumi possibili.

Si muovono da questo presupposto – senza dichiararlo apertamente, ma tenendo sotto traccia un mare tracimante di ansie e considerazioni sulla finitezza della nostra condizione attuale – i lavori di Nicola Genovese e Mark Požlep per Tomorrow, Maybe, I Will Be The Same. In particolare i video presentati in mostra testimoniano l’inutilità dei confini tracciati dall’individuo e le molte bugie che si raccontano sul concetto di identità. Che finisce ad essere, paradossalmente, come un feticcio contraffatto da esporre, una certificazione inautentica della nostra autenticità.

Nel video Coronation Genovese riprende un uomo di mezza età nella sua casa tipicamente veneta mentre mostra i copricapi e gli strumenti che ha realizzato sul modello dei nativi americani nel proprio tempo libero. Tale signore ama a tal punto questa attività da avvertire una comprensibile e naturale umana vicinanza ai pellerossa, ben oltre ciò che esso stesso conosce: in qualche modo egli sente nell’animo di essere portatore di un’immateriale eredità cherokee, tanto si confondono la sua intimità con quella del popolo americano. Nel video (una sorta di siparietti ripresi nella sua abitazione) non vediamo mai il suo viso né lo sentiamo parlare; l’audio in sottofondo, la televisione a casa del signore, però racconta di un altro mondo – quello occidentale in cui siamo, o forse quello italiano falso e cattolico – che celebra l’incoronazione dell’ultimo papa, in un appuntito contrappunto burlesco. La sua proiezione verso gli indiani e il contesto in cui egli vive stridono manifestamente, eppure egli avverte la necessità di costruire una propria privata mitologia, un panteon inatteso e curioso che fa sorridere nel suo declinarsi in forma domestica.

Il video Grain di Mark Požlep nasce invece raccontando la storia di una pianta, da un suo sradicamento urbano verso la riconquista di uno spazio selvaggio, operata grazie all’azione di un ragazzo che, in barca a vela, colloca la pianta in una piccola isola. C’è qualcosa di epico ed ardito nel sue gesto, nella poesia di ridare la libertà ad una pianta che nasce ed è programmata per vivere in un ambiente urbano. C’è anche l’ardore di un uomo che deve sfidare in solitaria la natura per creare un ordine nuovo, quasi fosse un eroe wagneriano chiamato a dare un regno al proprio popolo. Ricollocare una pianta non è altro che un gesto romantico e simbolico che spiega il bisogno di scorgere un po’ di ordine nel babelico caos del mondo; ma è anche la modalità antiretorica per trovare un senso compiuto alle proprie azioni, mettendo in luce lo stato di disorientamento dell’individuo, lacerato da tensioni e desideri inspiegabili, incapace di trovare soluzioni al proprio stato che non siano modesti palliativi.

I due video di Požlep e Genovese mostrano senza filtri lo stallo e l’inconcludenza della nostra epoca, percorsa da nonsense ideologici, simbolici ed estetici. Non ci sono altro che inconsci fallimenti che profumano di vittore; e comunque nonostante tutto, come indica laconicamente il titolo della mostra, domani probabilmente, sarò ancora lo stesso. Amori, passioni, azioni e gesti personali, dai più banali ai più eroici, manifestano così la loro natura di paravento dietro cui il proprio io può appagarsi nascondendosi. Ogni zolla di terra o ogni usanza importata da lontano può diventare in questo modo l’heimat agognato. Qualunque isola può diventare Itaca a buon mercato per Ulisse dei nostri giorni che, con la testa annebbiata da qualche cocktail di troppo, si sono scordati l’indirizzo di casa.




[1] Le teorizzazioni di Zygmunt Bauman sulla liquidità postmoderna fanno riferimento alla consistenza dello stato liquido/solido (la contrapposizione postmoderno/moderno), ma si potrebbero applicare anche alla sostanza dei liquidi, al mischiarsi e all’interagire dei reagenti.
[2] Cfr. il celeberrimo frammento 49a, in Hermann Diels e Walther Kranz, I presocratici. Testimonianze e frammenti, Einaudi, 1976.