Nero
Post Real Life or Hostage/Privilege

Faenza, Banca di Romagna
ottobre ― dicembre 2011

C’è bisogno di economia (e di politica)
Daniele Capra




L’assunto che sta alla base del pensiero filosofico di Carl Marx, oltre ovviamente al modello hegeliano del materialismo dialettico, è quello che le variabili economiche sono il vero motore che condiziona le scelte della società capitalistica. In sostanza, in maniera antitetica – o complementare – a quanto teorizzato successivamente da Max Weber ne L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, è l’economia ed il desiderio di profitto che sta alla base dell’evoluzione della società moderna. Una conclusione che rasenta il buon senso e l’esperienza di tutti, si potrebbe dire. Eppure avere di più, in un mondo in cui gli uomini competono per aggiudicarsi i beni (se cioè essi sono scarsi), per remunerare i fattori di produzione ed il capitale, oppure per l’utilità che i beni stessi portano, spiega come la creazione del valore delle cose sia davvero il grande campo di battaglia su cui gli uomini si confrontano. Al di là di qualsiasi teorizzazione economica, è necessario cioè che venga a generarsi un valore, il quale rappresenta in buona sostanza il carbone grazie a cui è spinta in avanti la locomotiva a cui siamo attaccati con il nostro vagoncino personale.

È così presto detto perché l’arte contemporanea rappresenti, per chi si occupa di economia (sia in forma accademica che nella pratica quotidiana), un affascinante territorio di indagine, come hanno da tempo hanno capito anche coloro che operano nel campo della moda, da sempre attenti a creare senso – anche economico – ex novo. L’arte, per la sua magica capacità, rende possibile che la differenza tra valore attribuito (e pagato) e costo di produzione sia al massimo grado: crea cioè un cortocircuito rispetto alle logiche correnti degli altri settori; e sfugge poi, per sua stessa natura, all’idea di essere prevedibile, dato che essa stessa smentisce ciò che con forza ha asserito nell’attimo precedente.

Dovrebbero saperlo gli artisti, che l’equivalenza kust=kapital non è semplicemente una riflessione sociopolitica di Joseph Beuys, ma un ragionamento lucidissimo su come l’arte possa agire come un lievito nel momento in cui avviene che tutti gli ingredienti siano impastati nel modo corretto. Ecco perché fare una mostra in una banca, come nel caso del progetto di Nero, non vuol dire semplicemente collocare delle opere dentro ad un luogo destinato alla conservazione del patrimonio, ma cercare di combinare i fattori affinché la polverina magica dell’arte contamini il patrimonio, ed anche – così si spera in un momento in cui l’economia langue – che un po’ di quella ricchezza conservata sia essa stessa attivatrice di nuova produzione contemporanea.

La ricerca di Nero ha subito un progressivo cambio di rotta negli ultimi due anni. Le istanze concettuali più forti, che negli anni precedenti trovavano forma in una figurazione atipica, curiosa, e nell’uso frequente della ceramica che gli deriva dalla plurisecolare tradizione artigianale faentina, sono maturate e hanno assunto altre modalità espressive. In particolare modo il disegno ha avuto la funzione di traghettare il lavoro dell’artista verso dinamiche relazionali complesse: la realtà, la cronaca, il mondo della comunicazione e le sue bugie, fino ad allora sulla porta, sono infatti entrate prepotentemente nel suo lavoro, muovendo le sue opere da un’atmosfera ironica, surreale e trasognata, ad una caratterizzata da contenuti più spiazzanti e taglienti, in cui il gioco di raggiro della realtà viene reso in forma più esplicita.

Il pensiero di Nero cioè è passato dal produrre manufatti artistici (oggetti reali) ad una dimensione più marcatamente anarchica, in cui viene esercitato il diritto di analisi e di critica – visiva o concettuale – del reale. Non è più solo l’aspetto dell’effetto a muovere l’artista, quanto quello del monito, il voler innescare cioè spazi di pensiero in cui l’arte lascia aperte le conclusioni, dopo aver fatto saltar per aria i paradigmi di riferimento. Ecco perché il progetto di una mostra in banca, per un artista con il suo background in qualche modo alternativo e che rifugge la pratica del cool lustrini e pailettes, può rappresentare una forma di rapina. Per rapina intendiamo ovviamente un impossessamento forzoso/giocoso di luoghi e spazi altrui (non certo l’azione violenta portata da ladri), dato che, in qualche modo, l’artista sceglie di andare against the machine: fare una mostra in banca, al di là della prassi consolidata di ospitare esposizioni che hanno alcuni istituti di credito, è la vera opera del progetto, poiché sono i suoi stessi lavori ad essere collocati fuori contesto.

Se molti lavori degli artisti nascono a partire dalla necessità di mettere in scena lo spiazzamento dell’oggetto (il detournement teorizzato da Guy Debord ma praticato già dai surrealisti e Marcel Duchamp), il progetto bancario di Nero rivela come sia possibile la pratica al quadrato, cioè lo spiazzamento dello spiazzamento. Vedere lavori come People watching o Star Trek / Gangbanging on a star (rispettivamente un giornale bucato quasi a diventare una maschera e la parodia della celebre serie di fantascienza in cui gli occhi dei personaggi sono stati cancellati) fuori del contesto in cui si pratica la visione, come ad esempio la galleria o la propria casa, significa evidentemente spostare altrove il gioco con lo spettatore, verso una dimensione in cui l’opera si sottrae dalla morbida sacca amniotica del luogo d’arte per sporcarsi le mani con la realtà; accettando talvolta, inutile dirlo, anche di non essere l’attore principale della recita. Le ironiche trombe di Trumpet Economy Disaster che precedono la mostra il giorno della vernice, nelle strade vicine alla banca sede della mostra, squilleranno così ancora più forte, come quando si annunciano gli spettacoli circensi. Solo che questa volta, il circo, più che felici i bambini, farà pensierosi i grandi.